L’Aquila, 2006. Una nobile iniziativa editoriale della Comunità Montana Amitermina e del suo presidente Giacomo Di Marco, nel supplemento alla propria rivista “Storie dal territorio” diretta dalla giornalista Antonietta Centofanti, fotografava la realtà dei migranti nella provincia dell’Aquila e in particolare nei comuni afferenti alla comunità montana. Con un’attenzione autentica e partecipe che voleva “rappresentare una piccola finestra su un universo in movimento, non non transitorio”. Nel numero 9 della rivista era presente un mio articolo dal titolo “Teatri meticci. L’esperienza interculturale in Abruzzo”, un primo tentativo di delineare un orizzonte fecondo e promettente.
Per sua natura votato alle ibridazioni e all’accoglimento delle differenze, il teatro è la forma artistica che più si presta alla messa in luce delle emergenze sociali, all’anelito degli artisti a disegnare mappe di comportamento civile, in una società che impone crescenti sfide culturali e, tra queste, quella della convivenza pacifica e paritaria con immigrati d’ogni razza e cultura. Una sfida che il teatro, grazie al suo originario e irrinunciabile valore sociale, fondato sul senso dell’io e del tu, ovvero sull’interazione tra l’artista e lo spettatore, non manca di affrontare, in un universo di azione variegato, in cui diverse associazioni teatrali, fin dagli anni Novanta, hanno iniziato a cercare risposte alle questioni che impone la presenza massiccia di stranieri nel nostro paese.
Sul piano strettamente artistico, e significativo per la cultura teatrale, un primo ed alto esempio di meticciato teatrale è rappresentato dall’esperienza de Le Albe – Ravenna Teatro, la compagnia fondata nel 1983 da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, che nel 1998 ha acquisito, come parte integrante della compagnia, alcuni griots, ovvero dei cantastorie senegalesi, avviando esperimenti di teatro di narrazione impostati sui livelli limguistici del wolof e dal dialetto romagnolo. “Griot-Fuler”, lo spettacolo cifra che gli abruzzesi hanno visto a Popoli dei Teatri alcuni anni fa, nella rassegna “Echi” organizzata da Drammateatro, accosta due fugure comuni alla cultura autoctona e senegalese, evocando similitudini nella diversità ma soprattutto consegnando al pubblico delle domande: se sia possibile ricucire insieme i fili della memoria di quanti approdano da noi come immigrati, spesso in fuga da tragedie, se si possa alleviare il loro senso di sradicamento, se si possa salvare qualcosa di culture orali altrimenti destinate a perdersi nel processo di assorbimento da parte delle nuove comunità.
Significativa la traduzione nera della maschera di Arlecchino individuata da Martinelli nel suo attore senegalese Mor Awa Niang. “Cos’era la maschera di Arlecchino nel ‘500 – si domanda – una maschera complessa, frutto di un intreccio di motivi: una componente sociale, quella dell’immigrazione: l’Arlecchino come immigrato che dalle valli bergamasche si recava a cercar lavoro nella ricca Venezia, e una componente magico-simbolica: l’Arlecchino come figura del diavolo. E chi è oggi il nostro Arlecchino?…Chi parte dalla savana per giungere nella ricca Europa”.
Sull’esigenza di mettere in comunicazione mondi e culture diverse su un piano di pari dignità, sulla fede che il teatro possa essere uno strumento di educazione alla interculturalità hanno fondato la propria azione artistica varie formazioni, tra le quali Almateatro, nata a Torino nel 1993, all’interno del Centro interculturale Alma Mater, l’A.C.T.I., Associazione Culturale Teatri Indipendenti, fondata tra gli altri da Remo Rostagno nel 1997, Koron Tlè, ideato da Serena Sartori all’interno del Teatro del Sole, attivo anche in Burkina Faso attraverso l’assoziazione Siraba, Mascherenere, nata nel 1991 per iniziativa di Leonardo Gazzola, che lavora con gli immigrati provenienti dall’Africa nera, Metis, sorta nel 1999 da un laboratorio con donne migranti, e molte altre.
Un universo differenziato cui si aggiunge il carattere inevitabilmente meticcio dei teatri che operano al chiuso delle carceri, in cui la diversità etnica si somma alla eccezionalità del luogo, come racconta “La tana della jena”, il libro pubblicato nel ’90 dalla casa editrice Sensibili alle Foglie, in cui il recluso Hassan Itab descrive la sua esperienza al carcere romano di Rebibbia e di quanto abbia significato l’arrivo di un regista e l’esperienza del teatro. E in un momento storico in cui ben il trenta per cento della popolazione carceraria risulta formato da immigrati, si comprende come all’opera dei mediatori culturali, recentemente istituiti anche nelle carceri abruzzesi, Casa circondariale di Castrogno (Teramo) in primis, sarebbe opportuno assicurare lo speciale soccorso che solo il teatro, quale “metafora vivente di una casa collettiva, fondata sul bisogno di espressione corale e personale” come lo definisce Claudio Meldolesi, è in grado di portare. Conforta, in tal senso, anche la felice esperienza dell’immigrato recluso al carcere Le Costarelle dell’Aquila, che nel teatro, praticato con la Compagnia de L’Uovo, ha trovato la sua personale redenzione ed una strada professionale.
Sebbene non possieda autentiche espressioni di meticciato teatrale, l’Abruzzo può contare su un ambiente civile ed un pubblico particolarmente sensibile e formato. Molteplici sono, nel corso dell’anno, le occasioni di incontro con culture altre, con antipodi geografici e culturali in rassegne e festival programmaticamente votati a scelte interculturali ed interdisciplinari, con alcuni nuclei di particolare pregnanza, ravvisabili, per quanto riguarda la scena agita, nel teatro danza di Anouska Brodacz, la coreografa pescarese che sull’esperienza delle danze africane ha costruito l’estetica della sua compagnia Gruppo Alhena, nella fase che Drammateatro ha dedicato alla cultura dei Rom, attraverso la messa in scena “Duj furat mulò“, la ballata zingara scritta da Santino Spinelli Alexian e recitata insieme a Susanna Costaglione su un doppio registro linguistico in cui il regista, Claudio Di Scanno, ha inserito musica, poesia e danze zingare, nel lavoro, infine, della compagnia I Guardiani dell’Oca di Atessa, che sta portando avanti una relazione creativa con la compagnia di lingua albanese Skampa, integrandone le valenze linguistiche e culturali.
Nonostante, come si diceva, l’esiguità delle esperienze, è notevole nella nostra regione la vocazione alla interculturalità e la fascinazione del lontano, il cui stimolo si deve ad alcuni mediatori d’eccezione. Si dovrebbe tornare con la memoria allo Stabile aquilano delle origini, a Scabia, che con il teatro curava l’analfabetismo nelle campagne, agli “Incontri teatrali” della fine degli anni Sessanta, al Living Theatre dell’Antigone di Sofocle al Comunale, ideale società multietnica e liberata, con il Tiresia nero di Rufus Collins. Poi venne l’internazionalità dei Festival del teatro accademico (TADUA) , poi ancora la rassegna “Burattini e saltimbanchi” dell’Atam, con i Comedians, tra gli altri, bloccati a Piazza Duomo dalle forze dell’ordine. Si è detto del Drammateatro e di come il suo festival – laboratorio “Echi” e i suoi “Sguardi meticci” abbiano portato a Pescara e a Popoli esempie di pratiche artistiche di tutto il mondo. Ma anche altre realtà hanno contribuito a dilatare i confini delle scena abruzzese, e in quest’ottica occupa un posto di rilievo il Festival di Montone, fedele all’originaria filosofia di fungere da crocevia di culture teatrali nomadi. Non si può omettere di ricordare, all’Aquila, la bella stagione di “Follie d’estate”, il festival ideato da Giorgio Pitone, che per anni ha tentato di abbattere l’isolamento della cittadella nosocomio di Collemaggio, prendendo la temibile diversità della malattia mentale a pretesto di un programma artistico sempre di altissimo livello.
L’oggi dell’esperienza interculturale resta, inoltre, agganciato al lavoro degli Studi Teatrali dell’Università dell’Aquila, che fin dalla metà degli anni Ottanta, hanno portato in Abruzzo esempi di terzo teatro, per il quale lo scambio culturale il baratto, l’incontro, sono valori imprescindibili, e quindi, trasformando il lontano in consueto, nutrito l’idea di un teatro eurasiano in cui rintracciare similitudini da un antipode geografico all’altro.
I gruppi più giovani, nati sulla scia di queste suggestioni, sono impegnati a spingere avanti questa dimensione di conoscenza, primo fra tutti Rogoteatro, nel cui alveo è appena nato il progetto “Carro di Tespi” che ha portato alla nascita della compagnia Peripatoo Teatro, una formazione tutta femminile che si è riunita per la prima volta in Patagonia con sei attrici, tra cui due italiane, due argentine e due spagnole, e che conta di viaggiare per il mondo accogliendo espressioni linguistiche e culturali.
“Il teatro per vivere deve essere attraversato dal fuori” dice Marco Martinelli; e il fuori è l’oggi, con le sue attese, emergenze, e i bisogni del pubblico, che restituisccono al teatro le utopie indispensabili per la sua vitalità. Tra queste quella di contribuire ad un make up culturale collettivo che faciliti una reale e pacifica integrazione con genti che giungono a noi con il loro fardello di storie, culture, lingue e costumi, drammi. L’ascolto è il primo movimento, come ci ricorda il Living Theatre, mai stanco di suscitare straordinari momenti di unione rituale con comunità disagiate e marginali, come i senza tetto newyorkesi sulle cui storie narrate in prima persona Hanon Reknikov ha allestito “The body of God”. Anche nell’incontro tra impegno sociale e educativo e teatro si può giocare la sfida della costruzione di una vera convivenza multiculturale.