La prima venuta in Abruzzo di Marco Paolini come attore solo fu nell’aprile 1996 con il “Racconto del Vajont”, alla sala Don Bosco dell’Aquila. L’anno dopo, nell’anniversario del disastro di Longarone, divenuto emblema di tutte le tragedie annunciate e degli allarmi inascoltati, il 9 ottobre 1997, l’Orazione civile di Paolini venne trasmessa dalla RAI in diretta dalla diga del Vajont, facendo conoscere al grande pubblico l’attore bellunese, già esponente del Laboratorio Teatro Settimo. Qui una una memoria dell’evento, recensito sulla pagina aquilana del Messaggero Abruzzo il 22 aprile 1996.
Un potere influente ed oscuro, come il gigantesco muro d’acqua che lavò via Longarone e i suoi abitanti, è il protagonista dello spettacolo – racconto di Marco Paolini, offerto dall’Università degli Studi dell’Aquila alla sala Don Bosco dei Salesiani. “Operazione civile”, dal titolo “Vajont”, ispirata al libro di Tina Merlin “Vajont 1963. La costruzione di una catastrofe”, che Paolini ha fissato in un canovaccio assieme al regista Gabriele Vacis ma che, dopo anni di cercare e raccontare, è ancora in farsi. Mentre conta “Vajont” nei centri sociali, nelle case, nei luoghi che non sono necessariamente del teatro, Paolini indaga, accetta suggerimenti, parla con la gente, informa. Per lui, infatti, “civile” è “la funzione, il mettere l’accento sulla comunicazione”.
Paolini, che Ferdinando Taviani ha introdotto come “straordinario nel contar storie; nel montarle, infilando l’ironia nel tragico”, e nel porgerle, che all’Aquila avevamo visto narrare, come Frate Lorenzo, la “Storia di Romeo e Giulietta” del Laboratorio Teatro Settimo e che possiede una biografia d’attore inusitatamente ricca: dal teatro politico alla commedia dell’arte, dal Laboratorio Stanislavskij all’ISTA, sa come tenere in pugno lo spettatore.
In “Vajont” il racconto incomincia da lontano, dalla fase progettuale della diga, attraverso un rosario infinito e preciso di date e di dati, di nomi e misure. Ma fin dal principio Paolini scrive su una lavagna una data: 9 ottobre 1963. E verso quella data, verso quella morte corre il racconto, frenato dalle digressioni e da una bella parola d’attore che non sa rinunciare alla teatralità per la cronaca.
Come nella tragedia, Paolini alimenta l’acme emotivo (la frana, la marea distruttiva) e, nella seconda parte del racconto, chiede agli spettatori di spostare indietro le lancette degli orologi. Così che, alle 22.39, il finale davvero coincida con la fine. A questo punto l’intenzione civile si tramuta in umana indignazione: che occorre non dimenticare e “fermare chiunque del quale si dica: “è qualcuno che farà grande il suo paese”. Paolini si appropria, da attore, come dice, di “una funzione abusiva, giacché la patente di dire, oggi, l’ha solamente la tv”.
Che valore ha avuto – abbiamo chiesto – portare lo spettacolo all’Aquila, dove una pagina della brutta storia del Vajont è stata scritta?[1] “Lo stesso di farlo a Longarone, lo stesso valore di celebrare a Catanzaro l’anniversario della strage di Piazza della Loggia”.
[1] Il processo del Vajont si celebrò all’Aquila nel 1969, trasferito da Belluno per “Legittima suspicione” su richiesta della procura generale di Venezia. Racconta la giornalista Marina Acitelli sulla medesima pagina del Messaggero: “E’ ancora nella memoria di molti l’arrivo in città di quegli autobus carichi di povera gente, dei superstiti delle vittime che nel processo si erano costituiti parte civile e che venivano a reclamare giustizia. Solo che giustizia non ci fu, almeno all’Aquila. Gli autobus durante le fasi del processo divennero sempre meno numerosi, i “montananari” delle Dolomiti vennero via via quasi tutti convinti ad una transazione, ad accettare cioè in cambio della ritira della denuncia un risarcimento da parte dell’Enel che, con la nazionalizzazione, era succeduta alla SADA (Società Adriatica di Energia Elettrica)”. Il processo dell’Aquila si concluse con la condanna in primo grado di tre persone per “Omicidio colposo plurimo e disastro”, sancendo dunque la non prevedibilità dell’accaduto.