“L’arte ha persino incertezza non la musica”, due domande a Fabio Mauri (1995)

Nella Chiesa di San Domenico, all’Aquila, durante l’allestimento della mostra Ad Usum Fabricae, in una breve intervista per il Messaggero (18 ottobre 1995), Mauri ha illustrato la sua installazione e la performance con un coro gospel che questa era sul punto di ospitare.

La performance è la linea di confine tra le arti plastiche e il teatro e prende origine dall’esperimento di usare gli esseri umani come elementi artistici meccanici, segni in movimento. Quale senso aggiunge dunque la performance allo spazio già occupato dall’arte?

Dal momento che una performance è un’opera in sé, sarebbe come aggiungere un quadro all’altro. Però è anche vero, data la componente teatrale della performance, che questa può diventare qualcos’altro. Diciamo che è la cassa di risonanza di un’installazione muta. Come tale è una buona compagnia di un’opera ed è essa stessa opera.

Qual è il significato del titolo del suo lavoro, “L’arte ha persino incertezza, non la musica”?

Che l’arte dubita integralmente di se stessa. Rispetto ad altre attività dell’uomo e alla stregua della letteratura, non possiede una definizione ultima. Non è così per la musica. Appena qualcuno canta o suona, si smette di discutere sulla legittimità della musica come espressione. Ma se la musica dimostra di essere manifestandosi, allora anche l’arte è. Cosa c’è nella mia installazione? Un bell’organo e ai lati residui di opere. L’autodistruttività delle arti plastiche è paragonata alla compiutezza della musica. L’operazione artistica allora è in questa domanda: come dall’incertezza comparativa si possa arrivare a dimostrare che l’arte è.

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