Interviste/“Solo la bellezza può salvarci”, le ispirazioni di Tonino Guerra a Canzano (2008)*
Nell’estate 2008, il grande sceneggiatore, scrittore, poeta ed artista Tonino Guerra (1920-2012) ha portato a Canzano (TE) le sue “Lucciole”, un’installazione diffusa che voleva riempisse di stupore e meraviglia vicoli, piazze, palazzi, cantine, chiese e giardini. All’epoca il paese alimentava il sogno di fare della propria ricca cultura materiale e delle proprie tradizioni civili e religiose un volano di sviluppo turistico sostenibile; erano nati da poco il Museo dei saperi familiari e quello del ricamo e si approfondivano le tracce antropologiche legate alle apparizioni mariane del XV secolo e al culto della Madonna dell’Alno. Oggi il paese ne sta immoto, indifferente agli Enti di governo e fermo al gennaio 2017, quando un’eccezionale nevicata e una serie di scosse sismiche originarono, proprio sotto la cinta muraria, una gigantesca frana che a tutt’oggi impedisce l’accesso al centro storico, con pesanti ripercussioni sulla fragile economia locale.
*Intervista in parte pubblicata sul Mu6 10/2008. Fonti: mia intervista, Sito web T. Guerra, video di A. Testaguzza.
Il mondo di Tonino Guerra, scrittore, sceneggiatore di fama, pittore ma, soprattutto, poeta, è un universo sognante di favole che assumono forme di quadri, lanterne, mobili, tappeti, arazzi, fontane. Dal 16 luglio al 23 agosto la suggestione del suo mondo incantato ha permeato di sé il paese di Canzano, in provincia di Teramo, racchiuso nella cornice sfavillante dell’installazione diffusa che il Maestro definisce “Le lucciole di Tonino Guerra”. Le lucciole sono concepite per spostarsi in paesi e città allo scopo di “illuminare con schegge di poesia” i luoghi che le ospitano. A Canzano, la multiforme opera di Guerra ha riempito di sé l’intero centro storico e le piccole luci intermittenti hanno addolcito i crepuscoli e le notti del paese, anche nelle vicine frazioni, brillando sulla sommità delle torri piezometriche.
Come è nato il progetto?
Mi è stato chiesto ripetutamente, da un caro amico, che voleva a tutti i costi illuminare questo paese del teramano. Tentavo di rifiutare, perché venivo da un periodo di salute non eccezionale e volevo sinceramente evitare il viaggio, ma poi l’ho fatto e ne sono rimasto contento perché trovo sia importante fare qualcosa per gli altri, specialmente in luoghi dove raramente arriva qualcosa che possa destare attenzione. Trovo bello portare qualcosa dove si arriva, senza rovinare quello che c’è, magari aggiungere qualcosa che abbellisce e non disturba. E sono felice di averlo fatto, perché Canzano è un paese straordinario e l’esposizione è stata collocata in luoghi veramente magici.
Sono luoghi che lei ha reso peculiari, rinominadoli poeticamente: la Cantina delle magie, il Terrazzo con il mare lontano, la Lanterna delle preghiere, la Cattedrale delle bambole…
Ho l’impressione che il nostro paese stia correndo verso la miseria. Solo la bellezza può salvarci. Noi di bellezza ne abbiamo molta, pure nei centri più appartati. Da tempo avevo il desiderio di venire in Abruzzo, una regione poco conosciuta che sa per questo svelare una bellezza nuova. Nel piccolo paese di Canzano che ha voluto accogliermi, ho portato il mio inno alla bellezza.
La cantina delle magie è una neviera del XIII secolo, dove con i muli si trasportava la neve per conservare i cibi. Per accogliere i lavori di Guerra è stata aperta anche una terrazza privata, e addirittura una minuscola cappella del Due o Trecento, ricavata all’interno della cinta muraria, la cui esistenza era finora sconosciuta alla gran parte degli abitanti. Nella mostra è diventata la Cattedrale delle Bambole, mentre a palazzo De Berardinis sono stati collocati i pannelli in tessuto, gli arazzi, i cuscini e le riproduzioni fotografiche delle sorprendenti fontane disegnate da Guerra che accostano elementi fitomorfi e zoomorfi di grande suggestione. Con l’umiltà di accettare che i suoi lavori si accostassero e quasi si saldassero con la continuità artigianale espressa dalla contestuale mostra del ricamo della Ars et Labor, scuola di ricamo che a Canzano possiede una solidissima tradizione.
L’installazione pare voler suggerire con ogni mezzo il suo desiderio di essere poeta e il suo amore per la parola.
Le parole mi cercano e vengono da me, non sono io che le cerco. Sono una specie di confessione questi momenti che vogliono dare un aspetto personale alla realtà e ai fatti che mi succedono. Mi pare che a volte arrivino buone cose, a volte meno, questo accade anche quando disegno fontane o mobili, c’è sempre una favola nelle mie cose, una poesia o, almeno, tento che ci sia. Le ultime fontane, ad esempio, dovrebbero essere dei tappeti d’acqua chiara con sopra dei ruderi che sono frammenti di favole. Parto sempre da un’idea, non da un disegno preciso. A Cervia, ad esempio, c’è un tappeto che è come sollevato dall’acqua, a Santarcangelo (di Romagna, suo paese natio, N.d.R.) un prato sorge sotto l’acqua, insomma cerco di fare delle poesie pietrificate.
Insiste sull’alfabeto, sulla necessità di salvaguardare la nostra lingua e anche i dialetti. ‘Se un popolo smarrisce il proprio alfabeto – ha detto – cessa di esistere come popolo’.
L’attenzione verso l’alfabeto mi è cresciuta in Armenia, il primo stato al mondo che ha fatto un monumento all’alfabeto. Sulle prime, mi parve una cosa assai curiosa, poi, riflettendo, capii lo straordinario messaggio che racchiudeva. L’alfabeto è il collante vero di una nazione, se si smarrisce l’alfabeto il popolo che lo usa non esiste più. Cerco dunque di fare quel che posso, anche per il dialetto. I dialetti sono le parole che hanno costruito i grattacieli di New York! E l’italiano, poi, che si basa su fondamenta così potenti, che sono la Divina Commedia di Dante, le opere di Petrarca, Leopardi, Montale, non può scomparire! All’alfabeto ho dedicato un progetto realizzato con l’artista Marina Azinian (con la quale condivide una lunga frequentazione dei mestieri del cinema, N.d.R.) per illustrare le lettere dell’alfabeto italiano. Ho accettato di accompagnare le magnifiche presenze create dall’artista con frammenti e brandelli di mie creazioni poetiche.
I dialetti uniscono le comunità ma separano anche. Lei usa frequentemente il romagnolo, ma si può ascoltare una poesia in dialetto come fosse musica, a prescindere dal significato delle parole, senza comprenderne il messaggio?
C’è una mia poesia che ha adoperato Tarkovskij nel film “Nostalgia”: “L’aria è quella cosa leggera che sta attorno alla tua testa e che diventa più chiara quando ridi”. Si rivolge alla madre o alla donna che si ama. (La recita in dialetto romagnolo, N.d.R.). Recitata in dialetto, non la puoi scrivere o capire, la puoi solo ascoltare e abbandonarti alla sua dolcezza.
‘Giocoliere dei significati’ l’ha definita Philippe Daverio. Anche dai suoi quadri si staccano delle figure oniriche, danzanti e giocose, da dove arrivano?
La mia è una pittura fatta di piccole cose, che arrivano da lontano, dai mondi che ho conosciuto ma anche dai luoghi che non ho visitato. Dentro di me ci sono i muri di New York, di Mosca e di tutti i posti in cui ho viaggiato. Ho capito, più tardi, che quello che raccoglievo nei miei viaggi erano i colloqui silenziosi, quelli che facevo guardando un albero o raccogliendo una sveglia rotta. Per me non c’è differenza tra pittura e poesia. Cerco di mettere sui fogli, o sulle tele, qualcosa che possa tenere compagnia. All’interno deve raccogliersi qualcosa, come un racconto. Non è, la mia, la grande pittura: è come un amico, che dai muri ti voglia trasmettere qualcosa di bello o di poetico.
Dai curiosi oggetti ricreati ad arte con materiali di riuso, come i mobilacci, le stufe dalle forme fiabesche o le fontane, che considera poesie di pietra, “Le lucciole” comunicano il messaggio di un amore assoluto per la natura e di un rispetto convinto ed appassionato per i frutti della terra. A Pennabilli, il paese dell’infanzia, ha realizzato un Giardino dei frutti dimenticati, un museo a cielo aperto di sapori antichi che si stanno perdendo. A Santarcangelo di Romagna ha realizzato un giardino pietrificato per ricordare tutti quelli che sono passati in quei luoghi amati, con una volontà programmatica di restituire qualcosa della civiltà contadina.
La civiltà contadina gettava polvere sui propri desideri e li allontanava. Era un mondo che si accontentava ma era un mondo che aveva grazia: che amava le cose, la natura, gli animali. Un mondo che stava insieme con tutto ciò che c’è sulla terra: non avvelenava l’acqua, non sporcava l’aria. Non voglio fare l’elogio di quel mondo ma bisogna tornare a riempirsi di umanità.
Anche dal cinema, nella corposa serie di sceneggiature realizzate per grandi registi arrivano queste schegge di umanità, memorie di cose apparentemente marginali che traducono l’essenza di quelle relazioni con uomini straordinari. Nel video di Adriano Testaguzza proiettato a Canzano in occasione dell’apertura della mostra, fa un excursus ispirato e poetico di quei rapporti.
Resta in me un grande fascino per la musica di Nino Rota del quale ricordo tanti momenti dolci. Era piccolo, come una specie di angelo, con un’innocenza negli occhi, una premura. Dentro di me c’è la grande danza, il caos, la caduta dai monti di pomice bianca, di questi giovani, di queste ragazze che sono anch’essi come degli angeli che discendono verso il mare, anche lui bianco. Sono momenti che vanno oltre la realtà, che sono già sogno e felicità. E questo pianto della pomice ti resta dentro, imbianca la memoria. Ho collaborato a centinaia di film e nella testa me ne restano come dei frammenti, di cose anche sgangherate perché spesso una entra dentro l’altra. C’è la passione di Antonioni di lasciare il lavoro e volare a Londra per conoscere tutti gli artisti, tutti i pittori, tutti i fotografi, la sua voglia di comunicare con l’intelligenza di una città, di un popolo. Ci sono i ricordi di Buñuel a Parigi, di Rosi con il suo sud d’Italia, così vicino a quel mondo eroico di Grecia, Tarkovskij con il suo amore per la poesia e la parola, Angelopoulos nella sua Olimpia, De Sica, I Fratelli Taviani, con il loro muoversi parlando come per dare anima a quelle parole, Rjazanov, con le sue favole grandiose e povere, Sokurov, con la sua voce piena di mistero: gente meravigliosa!
Come Fellini…
Si affacciano alla memoria imbiancata dalla polvere tanti ricordi. Una volta Federico mi disse: ‘Sai Tonino, spesso è nella notte, nel buio, che si trovano delle schegge d’oro’. Sono scintille luminose, che si raccolgono nella testa, come la musica di “Prove d’orchestra”. Abbiamo lavorato una decina di giorni a fare la struttura del film e per il finale ho avuto l’idea della palla. Volevo che ci fosse qualcosa di universale, come un pianeta o un meteorite, qualcosa più da fine del mondo che da fine di prove d’orchestra. Federico ha accettato. Così, dopo che la palla di ferro fa crollare il muro, finalmente gli orchestrali decidono di stare in armonia con il direttore ed eseguono alla perfezione il loro momento musicale. Ecco, una volta che il mondo è crollato, dobbiamo sforzarci di trovare un accordo. Un messaggio stupendo!
E una lezione per noi tutti?
Sono crollate le religioni, sono crollati i grandi ideali, crollerà anche la famiglia, ma è necessario, io dico, indispensabile, conservare la lunghezza dei rapporti. Troviamo il modo di andare in compagnia incontro alla morte, di conservare il rapporto lungo con tutti. Come in un sogno collettivo, tutto potrebbe essere più bello!