“Ho fiducia nella mia fantasia”, è un viaggio nella produzione artistica e nella dimensione esistenziale del pittore teramano Guido Montauti (Pietracamela, 1918 -Teramo, 1979), che restituisce, di una vicenda artistica ed umana complessa e per tanti versi sorprendente, l’esperienza di una continua evoluzione estetica e culturale dell’artista che, tra regionalismo e internazionalità, da un personale primitivismo approda a una pittura “tutta bianca”, orientata, “a raggiungere serenità soprannaturali”.
La mostra, dopo la lunga esposizione a Teramo, nei locali dell’ARCA – Laboratorio per le Arti Contemporanee, a cura di Ida Quintiliani e Umberto Palestini (organizzazione dell’Associazione Culturale Big Match con il sostegno del Comune di Teramo, Accademia Raffaello di Urbino e Fondazione Tercas), è ora visitabile al Museo “Casa natale di Raffaello” a Urbino, dove resterà aperta fino al 1° novembre. L’obiettivo è di raccontare l’artista, rivendicandone una presenza significativa nell’arte del Novecento, attraverso la proposta di una vasta scelta di opere cronologicamente esemplificative di un’esperienza mai disgiunta dai temi della natura e dell’uomo.
Ho fiducia nella mia fantasia e nel mio sprezzante mestiere – il titolo dato alla mostra è presente in uno dei testi richiamati nell’esposizione – per puntare verso una introduzione primigenia di elementi che mi danno certezza di approdo. Le opere, eredità della grande antologica allestita in occasione del centenario della nascita dell’artista, si sono accompagnate a molti inediti, disegni e piccoli olii, al fine di consegnare alla contemporaneità – e alla sua città – la memoria e la consapevolezza della vicenda artistica di Montauti, che Virgilio Guidi definì un “Poeta del paesaggio” e che i curatori hanno inteso leggere anche in una personale declinazione della Land art.
La vicenda artistica di Montauti inizia a Teramo nella prima metà degli anni Trenta del Novecento. Il coinvolgimento nelle vicende belliche lo porta in Grecia, Albania, Austria, Germania e infine in Francia, dove dipinge olii di piccolo formato e numerosi acquarelli. Nel 1946 soggiorna a Milano dove conosce Carrà e tiene una personale alla “Casa d’artisti”. Due anni dopo espone a Venezia opere caratterizzate da una personale vena espressionistica. A Venezia tornerà nel 1950, presentato da Remo Brindisi ed esporrà alla XXV Biennale.
Gli anni Cinquanta sono determinanti per la sua affermazione: tiene una prima personale a Parigi, dove si trasferisce. Vive a Montparnasse, dove conosce Salvatore Di Giuseppe, che diventerà il suo mecenate. In questo periodo la sua pittura, in un cromatismo molto materico, muove verso il primitivismo. Sul finire degli anni Cinquanta torna ad esporre in Italia opere da egli stesso definite “pittura spaziale”, ovvero caratterizzata da un’ulteriore sintesi figurale. Esce nel ‘61 una monografia di Maximilien Daudet dedicata ai disegni di Montauti, che riceve vivo apprezzamento da parte di Giorgio Morandi.
Ritornato a Teramo, dopo la morte del suo mecenate e numerose altre mostre, nell’aprile 1963 l’artista fonda il gruppo “Il Pastore bianco“, del quale fanno parte con lui Alberto Chiarini, Diego Esposito, Piero Marcattilii e il pastore Bruno Bartolomei. Insieme realizzano, nel territorio di Pietracamela, delle emozionanti pitture rupestri, dipingendo monumentali figure umane sulla roccia nelle Grotte di Segaturo.
La mostra puntella questo passaggio attraverso un brano del Manifesto del Gruppo, pubblicato dal “Corriere della Sera”: Come il Rinascimento, con spirito affine all’arte classica, si diversifica da essa, così il Pastore Bianco, ritornando alle origini, sa differenziarsi dall’arte dei primitivi. L’uomo e le cose, intese, perciò, strettamente e fisicamente nel loro concetto di uomo e cose, vengono a fare la loro apparizione come masse compatte di colore omogeneo, delimitate come il ricordo dell’uomo e delle cose suggerisce”. Nel 1966 “Il Pastore bianco” espone a Teramo, Pescara e L’Aquila e l’anno dopo firma la dichiarazione “I giovani artisti di tutti i paesi del mondo hanno raccolto il messaggio del “Pastore Bianco”.
Negli anni 1969-70 l’artista insegna al Liceo Artistico di Teramo. Contemporaneamente espone a Bologna e nella sua città. Sono le ultime occasioni pubbliche per Montauti che, da questo momento, ritorna a una dimensione defilata, tenendo volontariamente “chiusa la porta a mercanti e compratori” e impegnandosi nella ricerca di una nuova rappresentazione dell’uomo e della natura. Si tratta del cosiddetto periodo “Bianco” della pittura di Montauti: “Una pittura davvero tutta bianca che esprime il massimo della luce e che raggiunge serenità soprannaturali mai conosciute prima”, come scrive nella presentazione del lavoro di uno dei suoi più promettenti seguaci, Silvio Cortellini.
Un caso, Montauti, “Un singolare caso ‘periferico’ con frequentazioni ‘internazionali”, per il critico Enrico Crispolti (Catalogo del “Premio Michetti”, Francavilla al Mare, 1979), che ben puntualizza la poetica dell’artista: “Montauti assomma due diversità: cioè sia quella di posizione di ricerca, sia quella di collocazione geografica e socio-culturale defilata. Egli propone attraverso una sorta di personale declinazione di situazioni di ‘art brut’, una corrispondenza appunto ad una propria riconosciuta origine antropologico-socio-culturale, pagando il tributo a questa scelta di una collocazione operativa volutamente marginale e ‘periferica’ (…) Il suo ‘caso’ va dunque correttamente collocato sia appunto in una scelta ‘brutalista’ molto originale, e naturalmente in rottura dialettica con il panorama più ufficializzato e conclamato della ricerca contemporanea, sia in un lavorar ‘periferico’ inteso come separatezza voluta, intenzionata a corrispondere all’economia di una adesione quotidiana a quella propria matrice, contadina e montanara, riportata quasi al suo ‘imprinting’ ecologico ed etologico originario”.
“Si ritorna, così – conclude – alla unicità del ‘caso’ Montauti, alla sua molteplice ‘diversità’, alla sua posizione indipendente e in certo modo solitaria…assunta come valore personalmente più tipico e rispondente, e come ‘valore contro’, del quale farsi bandiera di verità umana e di contestazione culturale”.