Tributi/ Gianfranco Mantegna

Roma 1939 – New York 2001.

Gianfranco Mantegna nella suo studio di New York, ph. G. Felli

Fotoreporter, giornalista, traduttore, Gianfranco Mantegna è stato un testimone d’eccezione della storia del Living Theatre, a partire dal 1965, quando incontrò la compagnia a Roma per diventarne membro attivo e stabilirsi definitivamente a New York ai primi anni Settanta. Su questa fase ha pubblicato il saggio fotografico “We, The Living Theatre” (1970) ed ha poi tradotto in italiano i testi più significativi ed influenti di Julian Beck, di cui fu amico fraterno: “La vita del Teatro, l’artista e la lotta del popolo” (a cura di Franco Quadri, Einaudi 1975) e “Theandric”, il testamento artistico del fondatore del Living (a cura di Gianni Manzella, Edizioni Socrates, 1994). Collaborava con festival (“Taormina Arte Video”, “Riccione TTV”) e riviste d’arte italiane ed era corrispondente di “Fotografare”.

La casa di Gianfranco Mantegna, al 14 di Delancey Street, all’incrocio con la Bowery, è stata crocevia di molte frequentazioni artistiche, tra Europa e Usa, come quella di Joseph Beuys. Nel piccolo loft pieno di memorie e tracce di tali passaggi straordinari (sulla porta una dei primi lavori di Keith Haring, che aveva iniziato la sua carriera artistica in un vicino storefront), ho avuto l’onore di essere frequentemente ospitata durante le mie ricerche sul Living a New York. Dalla prima intervista, nel 1991, scaturì una sincera amicizia che lo portò a farmi dono di documenti preziosi e ormai introvabili, tra questi alcuni programmi di sala di spettacoli del Living degli inizi e diversi volumi della serie “Il Patalogo” pubblicata da Franco Quadri. Aveva duplicato per me centinaia di diapositive per una mostra che inutilmente tentai di organizzare all’Aquila e che su sua richiesta girai al gallerista Peppe Morra per un grande evento retrospettivo sul Living Theatre al Museo Madre di Napoli.

Gianfranco possedeva gentilezza e delicatezza d’altri tempi, viveva con l’inseparabile gatto siamese cui non aveva dato un nome e curava un inconcepibile (per l’epoca) orto sul tetto, dove coltivava fiori, pomodori e basilico da seme rigorosamente italiano. Gli sono stata accanto nella prima fase della sua malattia e della lunga degenza al Mount Sinai Hospital, non mi perdono di non esserci stata nella crisi successiva, a causa della quale sarebbe morto, nel 2001, a soli 62 anni.

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