“Se le bombe non possono insegnare, come può farlo il teatro?…Se l’angoscia accumulata dal ventesimo secolo nella sua tragedia senza pari non può insegnare, come può farlo il teatro?” (Julian Beck, “Theandric”1).
Eppure, talvolta, proprio dal teatro giungono schegge di umanità tanto intense da non smettere di turbare le nostre coscienze e di ritornare, come ferite, nella nostra memoria di spettatori. Così è per l’eco durevole de L’abisso, esperienza di teatro di narrazione recentemente offerta all’Auditorium del Parco, all’Aquila, dall’attore, scrittore e drammaturgo siciliano Davide Enia.
Lo spettacolo, operazione civile desunta dal libro autobiografico “Appunti per un naufragio” (Sellerio), ha chiuso il festival di teatro “Aria”, proposto dall’11 al 20 febbraio dall’Università degli Studi dell’Aquila, a cura di Massimo Fusillo e Doriana Legge. La rassegna, che riconnette la città alle buone pratiche del teatro universitario mirabilmente espresse in passato dal Tadua e dagli Studi Teatrali dell’ateneo aquilano, ha introdotto quest’anno al lavoro di due interpreti d’eccezione: Davide Enia, appunto, e Roberto Latini, che ha tenuto un laboratorio (Where is this sight?) e presentato il suo monologo I Giganti della montagna – Radio edit di Luigi Pirandello, in un’originale lettura per corpo voce (fruito, nel febbraio 2017, anche a Pescara, nella stagione del Florian Metateatro). Per la sezione cinema ha proposto un incontro con il regista Roberto Andò e la proiezione del suo film “Una storia senza nome”.
La potenza affabulatoria e catartica de “L’Abisso” sta in un’ora e mezza di racconto che coinvolge lo spettatore in un’intensa esperienza di crudeltà, trascinandolo nel mare in tempesta di Lampedusa, all’epoca di un indimenticato terribile naufragio, nella concitazione delle operazioni, spesso disperate, di salvataggio, sulla tristemente nota Cala Tabaccara dove si depongono i morti e sfilano i superstiti, nei pescherecci, quando le reti con i pesci restituiscono cadaveri. Lo porta a immaginare le sofferenze di uomini, donne e picciriddi, le donne soprattutto, mortificate nella loro intimità, abusate, separate dalle loro creature. Enia narra l’indicibile tragedia dei naufraghi con un ritmo serrato, partecipato e crescente che il nostro cuore non può non seguire sussultando all’accumularsi di orrore e disperazione.
Tra gli eroi di questa infinita tragedia, un rescue swimmer, allenato solo a salvare vite. Enia lo evoca come un gigante intriso dei drammi che ha vissuto, “un San Sebastiano trafitto da scelte lancinanti”, come se salvare tre persone che annegano o una madre con il suo bambino e cedere alla fredda logica della matematica. Tutti i personaggi del racconto trasudano pietas, come il medico dell’isola, Bartolo, che ha il triste primato di aver constatato più decessi in assoluto; li spoglia, cerca di capire quanti anni hanno, osserva i lividi, i tatuaggi, tenta di dare loro un’identità; o il custode del cimitero che dei morti straziati e senza volto si prende cura con commovente partecipazione, deciso a restituire dignità alle povere identità perdute. Per vincere l’imbarazzo della nausea si riempie la bocca di prezzemolo ma per tutti ha una croce, perché qualunque sia il loro credo, sempre cristiani sono.
I fatti di Lampedusa si legano, nella traumatica esperienza del narratore, alle vicende di alcuni pezzi della sua famiglia, consentendo, “come in un cerchio che si chiude”, di ricucire insieme affetti e legami in un impegno solidale all’azione che implicitamente rivolge anche a noi spettatori, destando un senso di indignazione e di responsabilità collettiva. Sulla scena vuota, a tratti seduto su una sedia, è accompagnato da un musicista, Giulio Barocchieri, che esegue dal vivo, alla chitarra elettrica, la partitura sonora: suoni stridenti e rumori che segnano il procedere del racconto. Quando questo raggiunge l’acme le parole evolvono ora in pianto o nel canto polifonico tipico dei pescatori, ora assumono il ritmo spezzato del cunto, pratica che Enia ha appreso alla scuola di Mimmo Cuticchio.
E sul finale, nuovamente “il cerchio che si chiude”. L’attore evoca il mito della principessa fenicia, figlia del re di Tiro, che “attraversa il deserto fino al suo termine, fino a quando i piedi non riescono più ad andare avanti perché di fronte c’è il mare. Allora le appare un toro bianco, che si piega e la accoglie sul dorso, facendosi barca e solcando il mare, fino a farla approdare a Creta. La principessa si chiamava Europa. Questa – chiosa – è la nostra origine”.
1Harwood Academic Publishers, NYC, 1992; pubblicato in Italia da Edizioni Socrates, a cura di Gianni Manzella, 1994.