Il Living Theatre ha avuto con l’Abruzzo una relazione speciale[1] . All’Aquila, in particolare, la prima venuta risale al 1967, una seconda al ’90 e una terza al ’92. Altrettante le occasioni d’incontro in altre località abruzzesi: nel ’93 a Pescara, quando il Living presenta un riallestimento di Mysteries and Smaller Pieces; nel ‘97 a Popoli, in occasione del seminario Una giornata nella vita della città, circostanza in cui il Living ha celebrato con il Drammateatro, che lo ospitava, il Passover Seder, la Pasqua ebraica, nella versione pacifista, femminista e vegetariana riscritta da Judith Malina. Nel 2006, al teatro Marrucino di Chieti lo stesso seminario è stato riproposto insieme allo spettacolo Love & Politics.
Si tratta di un arco temporale che esemplifica abbastanza compiutamente la vicenda estetica e politica del gruppo, fondato nel 1947 a New York da Julian Beck e Judith Malina. Teatro veramente “nuovo”, nato in opposizione al teatro commerciale e d’evasione, che nella sua lunghissima storia ha indagato tutte le forme possibili della messa in scena, guidato dall’imperativo morale di realizzare artisticamente un’esperienza degna della vita di ogni spettatore. Dal teatro di poesia al realismo radicale delle messinscene ispirate da Artaud, dal teatro di improvvisazione, mutuato dall’esperienza musicale e dall’happening, al teatro di strada, come fuoriuscita ragionata e consapevole dal chiuso degli edifici teatrali e dalla dimensione borghese; un teatro, soprattutto, costantemente orientato in relazione alla necessità di un rapporto onesto ed intelligente con il pubblico e all’adesione più coerente e rigorosa ai propri principi etici ed ideologici. Un teatro, infine, che, all’apice della compiutezza artistica e di un riconoscimento culturale mondiale, ha liquidato con un gesto esemplare gli anni dedicati a nutrire la bella forma, abbracciando una dimensione culturale ed esistenziale minoritaria e con essa il rischio di misurare la propria inefficacia artistica e politica, per realizzare pienamente quella dimensione di teatro totale auspicata da Erwin Piscator, alla cui scuola[2] newyorkese Judith Malina si è formata.
L’Abruzzo può costituire, pertanto, un osservatorio d’eccezione, poiché consente, ad uno sguardo sereno e criticamente onesto, di legare insieme alcuni momenti espressivi di una delle esperienze teatrali più affascinanti ed influenti della storia.
1967, L’Antigone di Sofocle al Teatro Comunale dell’Aquila
E’ il secondo degli “Incontri teatrali” della stagione, quarta tappa di una tournée che ha toccato Torino, Parma, Perugia e che, dopo la replica aquilana, interesserà Roma, Genova, Milano, Prato, Ferrara, Bari, Napoli e Firenze.
Come ovunque, nei suoi spostamenti in Europa e negli U.S.A., anche all’Aquila l’arrivo del Living è preceduto dalla sua fama. Fama di teatro che irrompe nel clima sonnolento e obsoleto della routine dei teatri pubblici, di formazione ribelle ed impegnata, nell’arte e nella politica, e che già al suo primo apparire, nella tournée del 1961, con Many Loves, di William Carlos Williams, The Connection, di Jack Gelber e In the Jungle of the Cities di Bertolt Brecht[3], viene definito “leggendario”. Un teatro di successo, portatore in Europa di quel germe straordinario di cambiamento e di innovazione che ha fatto germogliare le forme più avanzate dell’avanguardia artistica d’oltreoceano, come distruzione della forma spettacolare precostituita, il dissolversi della distanza tra attori e pubblico, la compresenza di piani espressivi e di linguaggi, la compartecipazione dei performer e degli spettatori all’evento scenico. Dopo quegli spettacoli, ed altri di grande rigore formale come The Brig[4], The Maids[5] o Frankenstein[6], e dopo la rivelazione metodologica di Mysteries and Smaller Pieces[7], L‘Antigone di Sofocle esprime la cifra di un approdo: un teatro che rinuncia ai suoi orpelli, alla seduzione delle scenografie e dei costumi e alla recitazione accurata a favore di una povertà di mezzi e di una sostanziale condivisione dell’evento teatrale con il pubblico.
The Antigone of Sophokles di Bertolt Brecht era stato rappresentato per la prima volta a Krefeld, nella Germania occidentale, il 19 febbraio 1967. Ma il progetto di mettere in scena l’Antigone risale a molti anni addietro, almeno al 1961, quando terminata la prima tournée italiana e prima di ritornare a New York, durante un breve viaggio in Grecia, i Beck acquistano in una libreria di Atene il “Modell” brechtiano dell’Antigone di Sofocle. «L’incontro tra i due vessilliferi della protesta anarco-pacifista e l’eroina archetipica della disobbedienza civile», nota Marco De Marinis[8], come già l’incontro con Artaud e, ancora prima, con Pirandello, appare inevitabile. Alla traduzione del testo dal tedesco si applica la stessa Malina, che è ebrea di madre lingua tedesca e che, pur basandosi sulla traduzione di Holderlin del 1804 usata da Brecht, osserva un più stretto rispetto dell’originale sofocleo. Il Living si mantiene fedele, nella struttura generale, alla rielaborazione brechtiana: «Non crediamo – dichiara Julian Beck[9], che ne firma la regia con la moglie – che ci sia un solo elemento, un solo valore dell’Antigone di Brecht che non sia reso evidente, che venga trascurato nel nostro spettacolo».
Tre sono, complessivamente, le variazioni suggerite alla drammaturgia dello spettacolo. La prima consiste nell’aggiunta dei “versi ponte”, o di liaison, contenuti nella “Leggenda di Antigone”, testo che Brecht aveva posto come legenda alle foto di scena pubblicate nel “Modell” e che egli utilizzava durante le prove dello spettacolo come testo per gli attori, per ottenere lo stile di recitazione epico e il tono distaccato del narratore. Gli attori del Living inseriscono i versi ponte nel corpo dello spettacolo e ciascun personaggio li recita, nella lingua del pubblico, prima di compiere l’azione, della quale essi costituiscono dunque, allo stesso tempo un’anticipazione e un commento.
La seconda variazione riguarda la soppressione del prologo scritto per la rappresentazione di Coira del 1948, che situava l’azione nella Germania nazista, identificando Creonte con Hitler. Recitando L’Antigone il Living riflette naturalmente l’America contemporanea e il Prologo diviene la scena di un attacco aereo, con sirene e movimenti delle braccia tese a tagliare liane o fitta vegetazione: un esplicito richiamo alla guerra in Vietnam.
La terza variazione riguarda l’introduzione di un terzo gruppo plastico, il popolo di Tebe, in contrapposizione figurativa e fonetica al coro degli anziani. Lo spazio scenico occupa tutto il teatro: il palcoscenico è Tebe, dove si celebra la vittoria e il dramma viene agito, mentre la platea è Argo, teatro della guerra e del pianto. La scena è vuota, priva di qualunque oggetto che abbia funzione simbolica o decorativa, e gli oggetti di scena sono gli stessi corpi degli attori, nella plasticità dei gesti e dei movimenti. Analogamente mancano i costumi: gli attori vestono i loro abiti di tutti i giorni e quando appaiono sulla scena, non v’è dettaglio che ne riveli l’identità, eccezion fatta per Polinice, che veste un completo di pantaloni e camicia rossi, a indicare il suo stato di cadavere.
Il gesto opera a due livelli: a livello rituale e come oggetto scenico e, quale imitazione della realtà non cade nel naturalismo proprio grazie alla presenza insistita del rito. Per il primo livello le fonti sono individuate nei teatri orientali, nella liturgia indiana, nei bassorilievi egizi. Per il secondo i materiali sono i più disparati: il cinema, la televisione, lo studio del comportamento animale. Anche l’elemento fonetico si pone su due piani, corrispondenti all’alternarsi della recitazione della Leggenda di Antigone (che avviene nella lingua propria degli spettatori) e del testo propriamente detto. Tuttavia la partitura sonora è pensata come complementare a quella fisica, la parola, cioè, è resa attraverso il suo equivalente gestuale, ridotta a puro elemento sonoro. Ogni gesto simbolico trova un corrispettivo di sonorità astratta: rantoli, ticchettii, singhiozzi, urla, schioccare di lingue, picchiettare di nocche sul pavimento e lamenti pervadono lo spettacolo per tutta la sua durata. Secondo Judith Malina si può parlare per L’Antigone di una «mise en scène sonora totale[10]».
Lo spettacolo si apre col rituale dell’iniziazione dello spettatore e si conclude con uno stratagemma che mette il pubblico dinnanzi alla necessità di una scelta morale. Gli attori, schierati in fila sul proscenio, si ritirano lentamente verso il fondo della scena, fissando lo spettatore atterriti, le bocche spalancate nella posa di un urlo agghiacciato.
«Antigone segna veramente l’abbandono totale di un teatro di convenzione, il ritrovamento della corporeità come unico mezzo teatrale, il segno coerente di un impegno, la raggiunta povertà». Così Franco Quadri[11], il critico teatrale che più di altri ha conosciuto, valorizzato e difeso il Living Theatre e che, proprio in occasione delle repliche italiane de L’Antigone, si dichiara convinto che la novità di concezione dello spettacolo obbligherà la critica italiana a trovare nuovi e più idonei criteri di giudizio, invocando un atteggiamento critico innovativo e di carattere tecnico-visivo. A tal proposito, sulle pagine della rivista Sipario[12] egli lancia una sorta d’inchiesta, basata proprio su un interrogativo: semmai i nuovi spettacoli richiedano un rinnovamento della visione critica. Il critico raccoglierà le recensioni di alcuni tra i più autorevoli osservatori professionali di teatro italiani, per concludere, non senza amarezza, che «dopo aver volutamente seguito la struttura della recensione tradizionale, occorre rendersi conto della esiguità del materiale residuo e della difficoltà di passare dalla genericità al rilievo preciso». Una lacuna culturale che non sarà mai colmata e che avrà conseguenze nefaste sulla considerazione critica del successivo lavoro del Living Theatre e sulla giusta comprensione della sua vicenda artistica.
Al TSA va dato atto d’essere il primo Stabile italiano ad assumersi il rischio d’ospitare il Living Theatre. Un’ospitalità accurata e partecipe, inoltre, fa sì che ad accogliere la prima de L’Antigone sia un pubblico preparato e in qualche misura formato. Corretto e rispettoso più di altri in Italia, permette alla serata di evolvere all’insegna della più pacata civiltà.
Già nelle presentazioni fatte dai giornali cittadini veniva sottolineata la richiesta di una disposizione particolare all’esperienza livinghiana, che il pubblico del Comunale pare rispettare appieno. È di qualche giorno prima la pubblicazione sul quotidiano Il Messaggero[13]di alcune precisazioni del direttore del teatro, Luciano Fabiani, sulla scelta dello spettacolo per il programma degli “Incontri Teatrali”, motivata con ciò che egli considera la missione culturale più autentica di un teatro stabile. «Si tratta – dichiara Fabiani – di una rassegna che adempie a uno scopo di doverosa informazione su cose che abitualmente non vengono altrimenti viste, salvo, in Italia, a Roma, Milano e qualche altra città».
Una scelta, gli fa eco il Consigliere delegato, Errico Centofanti, fatta fuori dal giudizio di valore: «L’adesione maggiore o minore, totale o parziale, l’essere d’accordo o l’essere addirittura del tutto non d’accordo con questo tipo di teatro, il sostenere che sia opera d’arte o che non lo sia, che così debba essere fatto il teatro oggi o che così non debba essere fatto, è un discorso che praticamente non esiste in questa sede. …Per quanto ci riguarda abbiamo cercato di scegliere il meglio di quanto è attualmente disponibile in Italia, come serietà nel far l’avanguardia; sulla validità di questo tipo di teatro, evidentemente, ogni spettatore giudica di per sé».
Il pubblico aquilano viene informato sulla pratica dell’happening propria dello stile del Living, sa in sostanza che dovrà aspettarsi un propagarsi della scena fin nella platea ed una vicinanza fisica con gli attori che si mescoleranno agli spettatori. Ragion per cui, informa sempre il Il Messaggero[14], «Molte signore solitamente sedute in prima fila, si sono prudentemente arrampicate nei palchi».
«…Colpi di scure e fendenti di spade, menati simbolicamente, fanno scempio di professionisti e studenti i quali restano impassibili ed evitano in massima parte di sconcertare gli attori con un qualche sorriso ai loro atteggiamenti ora scimmiotteschi o belluini. Un ritmo di cha cha cha proposto dalla galleria rientra subito. Soltanto uno spettatore non resiste alla tentazione di fare il solletico alle piante dei piedi di un tebano che gli si rotola a fianco. Questo “happening” castigato si ripete a tratti durante lo spettacolo, nei momenti culminanti della tragedia che coinvolge Antigone ed Emone, Creonte e Polinice». Questo il tenore della recensione pubblicata dal quotidiano Il Tempo[15] , a firma di Bruno Vespa, cronaca piuttosto indulgente in cui il giornalista evita di esprimere un giudizio critico vero e proprio, dichiarando preliminarmente che «la critica ufficiale del giornale stabilirà in occasione dell’imminente replica romana …la sua validità e i suoi rapporti con Sofocle, Brecht ed Artaud».
La recensione ufficiale arriverà dopo qualche giorno a firma di Giorgio Prosperi[16]. «Mi domando – egli scrive – come si debba assistere ad uno spettacolo del genere: se nel modo tradizionale di un’attenzione attiva, o in un lasciarsi prendere dalla suggestione magica e partecipare ex tempore ad un rito…Il problema è di sapere se l’arte è una espulsione e obiettivazione di demoni, una sublimazione mimetica del sudore, del terrore e della fatica, infine una purificazione, un vivere per suggestivo contagio, entro quei sudori e terrori. Per ora questo spettacolo non ha catarsi; se ne esce con i nervi scossi, il cervello in agitazione, un sentimento desertico».
Anche Ennio Flaiano recensirà lo spettacolo[17]: «Non era certo Sofocle che speravamo di ritrovare intatto nella riduzione di Brecht, ma la nostra sorpresa è stata di non ritrovare intatto nemmeno Brecht nella riduzione del Living, quel Brecht che addobba il capolavoro di didascalie e al momento di tirare le conclusioni aggiunge il dispositivo, la perorazione politica (…). Ossia questo Brecht c’era ma sopraffatto dalle invenzioni del coro, annullato dalle proposte che a questa massa di manovra giovanile venivano suggerite più dai miti dionisiaci che dalle prudenze brechtiane».
Buona è la recensione di M.S. (sigla) sulla pagina aquilana del Messaggero[18]: «Bisogna vederli questi attori, gustarla questa regia, immergersi in questo straordinario spettacolo che è L’Antigone. (…) L’Antigone dell’altra sera al Comunale non può davvero esser descritta prima della visione diretta: è uno spettacolo troppo affascinante e troppo complesso per poterne parlare per fama e sentito dire. E quand’anche le polemiche e le discordanze si appuntassero su motivi psicologici, di ideologie e contenutistici, rimarrebbe, quello del Living, uno spettacolo perfetto dal punto di vista formale e tecnico in cui la bravura degli attori è al vertice e la sensibilità dei registi attinge alle pure fonti della tragedia classica».
The Tablets a Piazza Sant’Agostino
Nell’estate 1990, quando il Living ritorna all’Aquila, con lo spettacolo The Tablets[19] di Armand Schwerner, in occasione di una tournée nel cui repertorio è anche I & I della scrittrice ebrea Else Lasker Schuler[20], lo spettacolo è inserito nell’VIII edizione della bella rassegna organizzata dall’ATAM (Associazione Teatrale Abruzzese e Molisana), “Burattini e Saltimbanchi” e porta la regia di Hanon Reznikov[21], che lo interpreta da protagonista e che, dopo la morte di Julian Beck, sopraggiunta nel 1985, ha affiancato Judith Malina nella direzione del teatro.
Nei quasi vent’anni che separano questa venuta del Living dalla prima, con L’Antigone, c’è lo snodo imprescindibile delle sorti del nuovo teatro, ovvero quel moto generale di cambiamento che coinvolge, tra il 1968 e il ‘70, le più autorevoli e rivoluzionarie esperienze del teatro del Novecento: Grotowski, Peter Brook, l’Odin Teatret, il Bread and Puppet e lo stesso Living Theatre. Un profondo ripensamento culturale, politico ed estetico, fa sì che essi scelgano di allontanarsi apparentemente dall’oggetto principale della loro ricerca teatrale, intraprendendo strade nuove, spesso rischiose, com’è nel caso del Living, per soddisfare dei bisogni artistici ed etici irrinunciabili. Per il Living questa scelta comporta un disconoscimento pressoché generalizzato da parte della cultura e della critica teatrale ufficiale, a causa di ciò che Franco Quadri fin da subito intuisce e che Ferdinando Taviani ci consegna come lo scandalo del teatro[22]. Uno scandalo esploso in maniera esplicita al Festival della Biennale di Venezia del 1975, quando il Living, o almeno la cellula della compagnia che si è riunita intorno ai Beck, presenta due “stelle” del ciclo di spettacoli di teatro di strada Eredità di Caino[23] ispirati ai testi dello scrittore austriaco Leopold von Sacher Masoch: Sei Atti Pubblici e La Torre del Denaro.
L’arte e la politica, i due capisaldi su cui il Living Theatre ha fondato la sua azione, guadagnandosi i favori del pubblico e della critica, appaiono irrimediabilmente compromessi e la delusione provoca un coro unanime di rifiuto e di condanna. Alcuni critici lo accusano di aver tradito l’ideale estetico: «La ricerca di semplicità è scaduta nel semplicismo» scrive Elio Pagliarani su Paese Sera[24]. «Che cosa è rimasto del celebre Living Theatre?» si domanda Aggeo Savioli su L’Unità[25]. «Sono venuti a dirci di non credere più nel teatro. E allora, perché non darci i film sul loro passato?»[26]. Altri accusano il Living di aver smarrito la sua carica provocatoria e di essere scaduto in una sorta di «cartellonismo agit prop[27]».
Gerardo Guerrieri sintetizza[28] le reazioni del pubblico e degli spettatori professionali: «Si sente dire: Sono l’ombra di se stessi, Non sono più una setta com’erano (cosa sono? Una chiesa? Un partito? Una messa?) Sono partiti – dice un altro – Hanno fumato per vent’anni e questo è il risultato. Li accusano di defezione dinnanzi all’arte, al teatro. Ma essi sentono la loro urgenza altrove. Come Geremia, avrebbe Geremia fatto teatro? Di che altro li accusano ancora?».
All’Aquila, The Tablets va in scena la sera di domenica 2 settembre 1990 in Piazza Sant’Agostino. Il quotidiano Il Centro recensisce lo spettacolo il 4 settembre in un articolo dal titolo “Living Theater, fantasma del ‘68”, a firma di Amedeo Carissimo, che scrive: «L’altra sera in Piazza San Marco i fantasmi terrificanti o seducenti di un glorioso gruppo d’avanguardia hanno sfidato una folla attonita e distratta al tempo stesso (…) Le Tavolette di Armand Shwerner ha dato una vaga impressione di necrofilia teatrale». Il critico ben interpreta per i lettori il senso dello spettacolo, fotografando le reazioni del pubblico: «In un miscuglio di inglese e italiano gli attori hanno lanciato stimoli allo spettatore, cercando anche un contatto fisico, ma intorno a loro hanno trovato una platea drogata da una dieta di testi classici e di regie teatrali paludate (…) Grande a questo punto – chiosa il giornalista – il rispetto per l’irripetibile passato del Living, con qualche punta d’imbarazzo per il presente».
Anche sulla pagina aquilana del Messaggero lo spettacolo viene recensito nella stessa data, da Marina Acitelli: «Era uno degli spettacoli più attesi tra quelli in programma… The Tablets, proposto l’altra sera nel freddo di Piazza San Marco ad un pubblico comunque foltissimo, ha sottolineato in maniera fin troppo evidente il declino e l’esaurimento artistico di cui da tempo (ancor prima della morte di Julian Beck nell’85) il gruppo soffre. ..Tenue l’interpretazione della fonte ispirativa…addirittura modesto il livello tecnico, vocale e mimico dei quattordici attori in scena, carenti scenografia e musiche, non è valsa a salvare The Tablets neanche la pur volenterosa regia di Hanon Reznikov. Insomma una delusione, se non una sorpresa».
Anche all’Aquila, dunque, come in Europa e ancor di più in America, l’accoglienza del Living Theatre si declina sul filo della nostalgia, del rifiuto e della smemoratezza. Ma The Tablets è esso stesso uno spettacolo sulla memoria ed è il frutto di una fase in cui il Living, grazie all’orientamento fornito da Hanon Reznikov, lavora sulla ricomposizione della propria storia teatrale come sulla storia sociale, dando avvio ad una nuova forma d’azione artistica: capillare, minoritaria, quanto mai impegnata nella contemporaneità, per realizzare il cambiamento auspicato nel piccolo, «oltre la curva degli applausi[29]».
«Con due spettacoli nuovi per l’Italia – scrive Cristina Valenti[30] della tournée del ’90 – è tornato recentemente il Living Theatre. Un ritorno sul filo della memoria: un filo fragile da spezzare e da non ritrovare più, perché legato ad anni mitici ed irrecuperabili. Ma il Living è riuscito nuovamente a porgere quel filo e a tenderlo senza che si rompesse: perché c’è un presente di quella memoria che continua a vivere con freschezza, corrispondendo con rigore, inventiva, intelligenza ed anarchia alla sua storia di rotture ed invenzioni».
1992, Il Pirandello del Living al Ridotto del Comunale
Il 21 marzo 1992, nell’ambito del seminario pirandelliano organizzato dal TADUA – Teatro Accademico dell’Università dell’Aquila – dal Dipartimento di Culture Comparate dell’Università degli Studi e dal Teatro Stabile dell’Aquila, Judith Malina ed Hanon Reznikov tornano all’Aquila per una conferenza dal titolo “Il Pirandello del Living”[31]. L’incontro si rivela illuminante del lascito di Pirandello nell’esperienza della compagnia, ovvero di come – spiega Judith Malina – «attraverso la messinscena di Questa Sera si recita a soggetto[32], Pirandello sia stato una fonte di ispirazione decisiva per tutto il lavoro del Living Theatre». Vengono quindi illustrate da Judith tutte le occasioni di contatto con il drammaturgo siciliano, dalla sua partecipazione come allieva attrice allo spettacolo Tonight we improvise allestito da Piscator al Dramatic Workshop, fino alla decisione di Julian Beck di far scaturire dalla pièce un lavoro sulle forme dell’avanguardia che il Living Theatre a quell’epoca stava esplorando.
«Fu – rammenta Judith Malina – un umile momento che tuttavia segnò l’inizio di quel lungo percorso verso lo spettatore che nei vibranti anni sessanta divenne la base della nostra relazione a teatro. Tale inizio di contatto con il pubblico che abbiamo individuato con Pirandello ci ha condotto alla ricerca di un teatro totale, dove la divisione tra le persone che sono sul palco e quelle che sono in platea non esiste più. (…). Portando il dramma in teatro – conclude, citando il suo compagno Julian Beck – e mescolando tra loro spettatori ed interpreti, si mirava ad eguagliare, unificare, avvicinare maggiormente tutti alla vita: unione come opposto di separazione».
Emerge dalla conferenza anche un inedito impegno pirandelliano della compagnia, generalmente assente dalla teatrografia ufficiale, ovvero una messa in scena de I Giganti della Montagna, su invito della “Pirandello Society” di New York, realizzato dagli attori del Living con una compagnia di danza.
Tema in generale poco esplorato e approfondito, gli esiti della relazione del Living Theatre con Pirandello si rivelano cruciali nella memoria trasmessa in questa occasione da Judith Malina, come nella lettura che ne ha dato lo studioso Claudio Meldolesi[33], che giudica quello del Living uno dei casi più esemplari della “reviviscenza” di Pirandello, laddove rappresentarlo abbia significato per alcuni registi illuminati «unirsi al suo teatro per farlo rivivere di nuovo».
«Pirandello – scrive Meldolesi, citando Alessandro D’Amico – fu un essenziale punto d’appoggio per Beck, allora agli inizi della sua rivolta teatrale; ma negli anni successivi è diventato vero anche l’inverso: Beck ha insegnato a cercare Pirandello dove nessuno l’avrebbe cercato a fil di logica».
1997: a Popoli Una giornata della vita della città
Dal 17 al 22 aprile 1997 il Living Theatre ritorna in Abruzzo su invito del Drammateatro, diretto da Claudio Di Scanno, nel contesto di “Studija/Pensieri e teatro”.
“Il passaggio di Judith – scrive Di Scanno nel testo di presentazione – acquista valori che non sono solamente riscontrabili nel ‘senso canonico’ di un seminario, perché dilata i confini della teatralità fino ai margini estremi della professione. O soltanto fino a quel luogo dove il senso della professione si disperde per ricompattarsi in un atto di scena esemplare perché capace di coniugare una maestria, e con essa la testimonianza di una vita nel teatro. E del teatro”[34].
L’incontro consente a una ventina di partecipanti di approfondire le tecniche di creazione scenica utilizzate dal Living, il lavoro sul corpo e sulla voce, l’improvvisazione, alcuni elementi di biomeccanica. La fase successiva è la formazione di gruppi e la scelta dei temi da svoluppare nella costruzione collettiva delle scene che confluiranno nella performance finale per le vie della città. Ma a Popoli, i direttori della storica compagnia americana, secondo la propria estetica teatrale, hanno condiviso non soltanto il tempo, come sempre straordinariamente proficuo e coinvolgente del laboratorio e degli incontri pubblici, ma anche la più privata consuetudine della celebrazione della Pasqua Ebraica, nella versione vegetariana, femminista e pacifista fissata da Judith Malina.
“Il Seder – spiega Judith – è una cerimonia aperta, dove tutti sono invitati”. Accade così che anche nella ‘casa’ del Drammateatro, come in innumerevoli altri luoghi del mondo, con gli attori, la studiosa Cristina Valenti e alcuni spettatori, si è avuta l’occasione di compartecipare di questo rituale antico che nella versione di Judith assegna a ciascuno un ruolo nella lettura dei testi che accompagnano la partitura gestuale e che, pur restando fedele alla tradizione ebraica nelle linee generali, presenta modifiche tali da farne un evento ancora una volta rivoluzionario.
Accanto alle conferenze: quella di apertura a cura di chi scrive e quella in forma d’intervista di Cristina Valenti, negli stessi giorni ha luogo una performance sulle domande di Julian Beck ne “La Vita del Teatro” e, per celebrare il dono di illuminazione, poesia e testimonianza portato in dote a Popoli dei Teatri, una partecipata e gioiosa “Festa per Judith” in una residenza privata in località Perdito.
2006, “Love & Politics” a Chieti
Accompagnati dall’attore Gary Brackett, che si è unito al Living ai primi anni Novanta, i direttori del Living tornano in Abruzzo nel 2006, dal 17 al 21 maggio, invitati dal Teatro Marrucino di Chieti, nell’ambito nella stagione di prosa “Nuove Scritture”. Vi ripropongono il seminario “Una giornata della vita della città” che, secondo la modalità proposta a Popoli, riflette il senso del vivere quotidiano in una città, attraverso il teatro e l’esperienza condivisa dei diversi mezzi espressivi sviluppati dalla compagnia nella sua storia: la biomeccanica, l’improvvisazione, la creazione collettiva, il teatro politico. Più di sessanta i partecipanti al workshop, propedeutico all’happening in strada, che si tiene nella serata del 21 maggio.
Lo spettacolo “Love & Politics”, in cui Judith e Hanon sono in scena con il musicista Pietro Pirelli, viene rappresentato al Teatro Marrucino la sera del 20 maggio. La regia è dello stesso Reznikov, su testi tratti dall’omonimo libro di Judith Malina pubblicato in Italia da Stampa Alternativa, e da precedenti spettacoli quali “Utopia”, “Metodo Zero” e testi poetici di Reznikov. Vi sono confluiti, inoltre, brani di libri – manifesto di Julian Beck quali “La Vita del Teatro – L’artista e la lotta del popolo” e “Theandric”, testamento teatrale, quest’ultimo, e incomparabile esempio di fede nel teatro come strumento per migliorare le condizione culturali, personali, sociali della gente: il teatro, come scrive, “la bellezza che offro in risposta alla distruzione del mondo”. (“Theandric, Julian Beck’s last notebooks”, 1992, Harwood Academic Publishers, è stato pubblicato in Italia a cura di Gianni Manzella, nella traduzione di Gianfranco Mantegna, da Edizioni Socrates, 1994).
Sullo stesso argomento vedi anche:
Note
[1] Si presenta qui la versione originaria dell’articolo pubblicato nel volume di A. Di Muzio “TSA, cronaca e storia” (Ricerche e Redazioni, Teramo, 2015).
[2] Il Dramatic workshop fu fondato da Piscator nel 1939 e da lui diretto fino al ’51, quando si avvicendò alla guida la moglie Maria Ley. La scuola fu frequentata tra gli altri anche da Tennessee Williams, Arthur Miller, George Bartenieff, fondatore quest’ultimo, del Theater for the New City.
[3] I primi due spettacoli, fanno parte del repertorio della stagione 1959, con cui, unitamente a The Cave at Machpelah di Paul Goodman (regia e scene di J. Beck) e Tonight We Improvise di Luigi Pirandello (regia e scene di J. Beck), il Living Theatre inaugura il teatro sulla Quattordicesima Strada. Nella Giungla delle Città verrà presentato nella stagione successiva. In Italia quest’ultimo spettacolo viene proibito dalla censura (nella stessa stagione vengono interrotte anche le repliche de “L’Arialda” di Testori).
[4] Rappresentato il 16 maggio 1963, lo spettacolo descrive una giornata in una prigione militare americana. Le fonti per la messinscena sono dichiaratamente individuate nella biomeccanica di Mejerchol’d, nel teatro della crudeltà di Artaud, nel teatro politico di Piscator e nel Manuale di addestramento dei Marines. E’ l’ultimo spettacolo presentato al teatro della Quattordicesima Strada, che viene chiuso a seguito dell’intervento dell’IRS con l’accusa di evasione fiscale, accusa che costerà ai Beck un periodo di detenzione. Nel teatro già chiuso Jonas Mekas effettuerà una ripresa cinematografica di The Brig che verrà presentata al festival della Biennale di Venezia nel 1964.
[5] Rappresentato a Berlino il 26 febbraio 1965, viene preparato in carcere da Judith che ne firma la regia e da Beck che ne cura le scenografie.
[6] Basato sul testo di Mary Shelley, è la seconda creazione collettiva del gruppo e viene presentato a XXIV festival del Teatro di Prosa di Venezia, il 26 settembre 1965.
[7] E’ il primo spettacolo “europeo” del Living Theatre, realizzato a Parigi a beneficio dell’American Center for Students and Artists, dove viene presentato il 26 ottobre 1964. Apoteosi del gesto, esso rappresenta allo stesso tempo l’avvio della “deteatralizzazione” del Living e della “teatralizzazione” del gruppo: «Non abbiamo più recitato ruoli – scrive Julian Beck – ma noi stessi» (La Vita del Teatro, Torino, Einaudi, 1975, p.73).
[8]Il Nuovo Teatro, Milano, Bompiani, 1987.
[9] Giovanni Mariotti, “Con la droga il pubblico capisce di più”, La Fiera Letteraria, 25 maggio 1965 (recensione di Antigone ed intervista a Julian Beck).
[10] Franco Quadri (1936 – 2011), “Note ad Antigone”, Teatro, 1, 1967.
[11] Franco Quadri, “L’Antigone del Living e la critica italiana”, Sipario, 254, giugno 1967.
[12] Agosto 1967.
[13] 2 aprile 1967.
[14] 5 aprile 1967.
[15] 5 aprile 1967.
[16] 9 aprile 1967.
[17] L’Europeo, 20 aprile 1967.
[18] cit.
[19] Con l’adattamento e la regia di Hanon Reznikov e le scene di Ilion Troy, lo spettacolo è stato presentato per la prima volta a New York, nel maggio 1989, al Living Theatre, al 272 della East Third Street.
[20] Lo spettacolo, per la regia di Judith Malina, ha debuttato il 20 settembre 1989, nella sede del Living, nella Lower East Side di Manhattan.
[21] New York 1950 – 2008.
[22] “Influenza del Living Theatre” in A. Attisani, Enciclopedia del Teatro del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1980.
[23] Diretta scaturigine di “Paradise Now” (Parigi, 1968), il progetto teatrale è stato avviato nelle favelas di San Paolo del Brasile nel 1970 e si protrarrà fino al 1978.
[24] 22 ottobre 1975.
[25] 21 ottobre 1975.
[26] Odoardo Bertani, Avvenire, 2 novembre 1975.
[27] Spettacoli & Società, 5 novembre 1975.
[28] Il Giorno, 20 novembre 1975
[29]Si veda su questa fase, Grazia Felli, “Il Living Theatre alla Terza strada” in Teatro e Storia, Anno VIII, N. 2, ottobre 1993.
[30] Rivista Anarchica, N. 8, Novembre 1990.
[31] Conferenza organizzata a cura di G. Felli e pubblicata in “Teatro e Storia”, Anno VIII, N. 2, Il Mulino, Bologna, 1992.
[32]Tonight We Improvise, New York, 1955, regia di Julian Beck.
[33] Fra Totò e Gadda, sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Bulzoni, Roma, 1987.
[34] Nella sei giorni di Popoli, oltre al seminario e all’evento conclusivo di questo, anche la conferenza d’apertura “Guardare al Living, oggi” a cura di chi scrive, una conferenza in forma di intervista di Cristina Valenti con Judith Malina e la performance di Judith con Hanon Reznikov sulle domande di Julian Beck ne “La vita del Teatro”.