L’ultimo spettacolo visto a teatro, prima della chiusura delle sale, si intitola “Neve di carta” ed è una messinscena onirica e struggente che parla d’amore, separazione e ricongiungimento, al culmine di una disperata stagione della co-protagonista nell’inferno di un manicomio. Sullo sfondo un’epoca e una società in cui anche solo una particolare esuberanza, una bizzaria del carattere o un eccesso d’indipendenza, nella fattispecie accompagnata dalla difficoltà di mettere al mondo un figlio, avrebbero giustificato l’internamento di una donna e la somministrazione delle cure trattamentali tristemente note.
Il pre-testo dello spettacolo è un libro della storica teramana Anna Carla Valeriano, dal titolo “Ammalò di testa – Storie dal manicomio di Teramo” (Donzelli, 2014), dal quale è liberamente tratta la drammaturgia in versi firmata da Letizia Russo, che nella vicenda dei protagonisti, Gemma e Berardino, ha individuato la traccia mitologica di Orfeo ed Euridice.
Si tratta di una produzione di Florian Metateatro in collaborazione con l’associazione culturale Hypsis di cui è regista, con Daniele Muratore, oltre che co-protagonista con Andrea Lolli, Elisa Di Eusanio, attrice teramana di successo che, dagli esordi a Spazio Tre con il regista Silvio Araclio, ha raggiunto significativi traguardi nella scena nazionale di cinema e teatro. Ospitato al Comunale di Teramo per la residenza artistica “Zone Libre” di Abruzzo Circuito Spettacolo, lo spettacolo abbraccia una dichiarata dimensione di impegno culturale e civile, nell’intenzione di far luce su un sistema sociale basato sull’esclusione e la condanna della diversità, poiché, sebbene sia chiaro il riferimento ad un luogo e ad un’epoca precise – come spiega la regista – i pregiudizi sulle donne oggi sono ancora molti e attuali.
Gemma e Berardino sono due contadini abruzzesi dei primi del Novecento. Li conosciamo da subito nella scena scarna, sposi felici e ridenti ma per poco. Lei la riempie con la fisicità della sua effervescenza gioiosa, tutt’altro che discreta e composta, come la vorrebbero le convenzioni dell’epoca e, soprattutto, la madre di lui, presenza che incombe e condiziona l’indole semplice e immatura del figlio, fino al punto da convincerlo che la ragazza abbia dei rami secchi nell’anima e che debba andare in manicomio per sfrondarli. E’ Berardino stesso a raccontare l’antefatto, in una dimensione straniata, parlando alla luna, che biancheggia tra gli ulivi, tra morsi di pane e parole.
La messa in spazio del dramma non ha bisogno che di essenzialità. Il manicomio è un muro alto e oscuro in fondo alla scena e lo spazio vive della compresenza di quelle due realtà esistenziali parallele, quella straniata e surreale di Berardino, che se ne sta prossimo al proscenio, quasi immobile e a testa bassa, rivolto al pubblico, intento forse a cercare un’assoluzione per una decisione, quella di internare la moglie, che attribuisce piuttosto alle sue gambe, che sono andate da sole, come dice, e quella vivida, corporea, di Gemma che, sotto il grande muro, ci rappresenta la vertigine delirante e dolorosa di abitare quel mondo alla rovescia. Veste ancora il suo abito bianco di sposa, il trucco ormai disciolto e i capelli scarmigliati, ma ancora chiama il suo Berardino e lo attende da dieci lunghi anni.
Dieci anni trascorsi a scrivegli lettere disperate, a contare sulle dita giorni, mesi, anni e qualunque altra cosa pur di nutrire la mente e resistere al vaneggiamento e al contagio della follia. Le lettere ora sono più di seimila ed ecco, che a un certo punto, nell’onirica progressione dello spettacolo, essi sono pezzetti di carta che cadono sulla terra come fiocchi di neve. Alcuni brandelli di lettere riescono a raggiungere Berardino che vi legge la disperata richiesta di Gemma: “Vienimi a prendere” e, finalmente, dopo che la morte della madre lo avrà affrancato da quel controllo castrante ed atavico, quella neve di carta indurrà l’uomo a ripercorrere la strada che i suoi passi conoscono. Il cerchio si chiude e l’originario ordine viene ristabilito: Gemma e Berardino sono nuovamente fianco a fianco sul proscenio, lei ha il volto provato dalle sofferenze vissute, gli occhi segnati dal pianto e dal nero del trucco di cui, nell’abbraccio, ha sporcato il viso di lui. Vicini, si tengono per mano e forse saranno felici.
Una felicità possibile e finalmente libera che, tuttavia, lascia l’amaro in bocca, poiché, come nelle intenzioni registiche, da spettatori siamo indotti a compartecipare di quella gioia come dei dolori e della colpevole ottusità e inconcepibile violenza e ingiustizia che scatenano il dramma; infine, anche di quella delirante speranza ed attesa di una soluzione. Andrea Lolli ed Elisa D’Eusanio sono intensi nel restituire il carattere dei rispettivi personaggi: la debole coscienza e rude semplicità di Berardino e l’energia vitale e resiliente di Gemma, la cui abruzzesità si rivela nell’inflessione dialettale e negli accenti dei monologhi più accorati. Le musiche originali di Stefano de Angelis hanno sostenuto questa dimensione spazio-temporale saldando alla drammaticità delle sonorità elettroniche la calda esuberanza delle musiche popolari. Uno spettacolo, in sintesi, solido e ben costruito, in cui anche gli elementi scenografici (di Azzurra Angeletti), le luci (di Camilla Piccioni) e i costumi (di Angela Di Eusanio) hanno contribuito a realizzare in scena un efficace e poetico equilibrio.
Grazia Felli