Luoghi impervi e inaccessibili, remote grotte carsiche su pareti ripidissime: nell’area teramana del Parco del Gran Sasso – Monti della Laga gli eremi raccontano, con suggestione ancora forte e viva, di personaggi straordinari che nella loro scelta ascetica sperimentarono un rapporto eroico con la natura selvaggia e primordiale. Non a caso si è parlato, per quelle primissime salite verso le cime e l’ignoto, di “alpinismo ascetico”, quasi un precursore di quello storico.[1]
Sulla Montagna dei Fiori, ad esempio, accanto alle numerose fioriture arboree (più di quattrocento quelle attualmente censite dai ricercatori del Centro Floristico dell’Appennino) che ne determinano con molta probabilità il nome, un’imponente disponibilità di grotte naturali si offrì come eremitaggio ai monaci benedettini che dipendevano dall’importante Monastero di S. Angelo in Volturino, nell’ascolano. Ben quarantaquattro ne furono censite nel 1800 dallo storico teramano Concezio Rosa, mentre le prime ricerche paletnologiche condotte dalla metà del Novecento nelle Grotte Sant’Angelo: quella superiore, oggi visitabile, e quella inferiore, detta di Salomone, fornirono preziosi elementi per stabilirne una frequentazione continuativa, dal Paleolitico Superiore fino all’Età del Bronzo e del Ferro, prima che, nel Medioevo, secondo un fenomeno che ha diffusamente riguardato gli ambienti grottali italiani, essa fosse consacrata e dedicata al culto di S. Michele Arcangelo.
Nella Grotta S. Angelo, oggi Museo il cui progetto di restauro è stato effettuato dal Parco in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo e l’Università di Pisa, è possibile visitare l’interno tramite passerelle metalliche, in un percorso integrato da pannelli illustrativi. Gli scavi hanno documentato i livelli Neolitici, con ceramica impressa ad unghiate, a pizzico e a solchi, quella dipinta a bande rosse (di tipo “Catignano”) e quella dipinta dalla cultura di Ripoli, con motivi geometrici e linee e punti di colore bruno, oltre a numerose buche contenenti frutta selvatica, da ricollegare forse a riti di fertilità della terra. Di straordinaria importanza sono i livelli del Bronzo Medio, che documentano la produzione ceramica della civiltà appenninica tramite numerosi reperti che oggi si possono ammirare al Museo Civico Archeologico di Teramo.
Su quelle stesse rocce inaccessibili in cui nidificano le aquile, altre cavità naturali hanno offerto nuda ospitalità agli asceti, come l’arduo eremo di Santa Maria Scalena, situato a picco sulle impressionanti Gole del Salinello. Nella grotta sono ancora presenti una cisterna per la raccolta dell’acqua, un piccolo altare e sul muro un affresco malauguratamente mortificato dall’inciviltà di qualche visitatore. Completano l’atmosfera di spiritualità estrema dell’area la grotta di San Marco, collocata sulla parete opposta, sotto la fascia boschiva, e più avanti le rovine dell’eremo di San Francesco alle Scalelle.
Dolcissima e intensa, oltre che estremamente viva nella cultura religiosa locale, l’esperienza eremitica di una fanciulla, Santa Colomba, contessa di Pagliara (1100 – 1116) e sorella di Berardo, che fu vescovo di Teramo e quindi santo e patrono della città. L’Eremo di Santa Colomba si trova su uno spuntone di roccia quasi sulla vetta del Monte Infornace, a 1.234 metri di quota, nel Comune di Isola del Gran Sasso, in un punto in cui, è stato osservato, il Gran Sasso cela quasi la sua imponenza, nascondendosi dietro nebbie e foschia.
La cappella, che fu fatta erigere da Berardo e consacrata nel 1216 da Sant’Attanasio, vescovo di Penne, si presenta oggi con forma trapezoidale e dal presbiterio leggermente rialzato. Sull’altare, costruito in luogo del giaciglio della santa, si trova la statua a lei dedicata ed è ancora visibile l’apertura che ne custodiva le reliquie fino al 1596, quando furono traslate nella Chiesa di Santa Lucia ad Isola del Gran Sasso. Dinnanzi alla chiesetta uno spiazzo, utilizzato per la celebrazione della Messa, offre una vista impressionante sulla valle sottostante.
I Santi Colomba e Berardo erano figli dei Conti di Pagliara, signori della Valle Siciliana e, pur giovanissimi, abbandonarono gli agi familiari per abbracciare la dimensione dell’ascesi e della preghiera. Colomba scelse di risalire il Gran Sasso, volendo “tacere perfettamente il rumore del mondo”. Berardo, già monaco benedettino e sacerdote a Montecassino, si ritirò nel monastero di S. Giovanni in Venere e, quando venne cooptato per l’alta carica religiosa, si narra che raggiungesse la sorella in pieno inverno fin sul monte Infornace per ricevere da lei consiglio e che questa, non avendo nulla da offrirgli per rifocillarlo, abbia fatto fruttificare miracolosamente un ciliegio. Lo stesso Berardo ebbe la ventura di cogliere l’ultimo respiro della sorella e poté darle degna sepoltura in quello stesso luogo. Tra storia e leggenda, tra i tanti fatti miracolosi che circondano la vita della Santa, vi è l’impronta della mano impressa su una roccia lungo la salita all’eremo e quella del suo pettine incisa su una roccia.
La devozione alla Santa fanciulla viene generosamente espressa dalle popolazioni del luogo il 1° settembre, quando i devoti si recano in processione fino alla chiesetta, risalendo il sentiero impervio e cantando l’inno che ne descrive i miracoli compiuti in quel luogo aspro e selvaggio, con l’accompagnamento dei tradizionali “Tamurri” di Pretara, particolare formazione strumentale la cui origine si fa risalire addirittura al XV secolo. Ancora oggi, è in uso che i pellegrini che risalgono l’erto pendio si fermino a riposare nel luogo in cui si ritiene fosse radicato il miracoloso ciliegio. Giunti alla chiesa, è consuetudine accostarsi al piccolo altare di pietra costruito in luogo del giaciglio della Santa ed introdurre la testa o gli arti nel foro sotto l’altare per ottenere guarigione da mali fisici. Al ritorno si riportano rami di abete bianco, il quale, essendo stato impiantano non più un secolo e mezzo fa, potrebbe secondo gli studiosi avere sostituito simbolicamente qualche altra essenza arborea[2].
Nel 1647, come recita la lapide di lato all’altare, mentre si procedeva ai lavori di restauro della chiesetta, risultava dimorarvi un altro eremita, di nome fra’ Giovanni. Più tardi vi giunse anche fra’ Nicola, il quale aggiunse una piccola stanza come romitorio. Questo stesso eremita laico realizzò un altro eremo nella grotta di Frattagrande, nei pressi del torrente Ruzzo, e, negli ultimi anni della sua operosa esistenza, non potendo più girare per la questua, rifiutata l’ospitalità offertagli dai Padri Passionisti morì di stenti, come aveva vissuto, il 23 febbraio del 1886. Fu l’ultimo eremita del Gran Sasso e pare ricevesse abitualmente numerose visite nel suo eremo, anche da parte di personaggi noti, come Francesco Paolo Michetti e Costantino Barbella.
[1] Cfr. C. Berardi, Santa Colomba diva dei monti e patriarca dell’alpinismo sul Gran Sasso, www.seripubbl.it.
[2] Cfr. A. Manzi, Piante sacre e magiche in Abruzzo, Lanciano, Carabba, 2003.
- Articolo apparso sulla rivista Mu6, N.24/2012