“La necessità del teatro nell’oggi che viviamo”, intervista con Claudio Di Scanno (2007)

 

Il regista dramaturg Claudio Di Scanno (@claudiodiscanno)

Il fondatore del Drammateatro e del Centro di Cultura Teatrale “Popoli dei Teatri” (Popoli, Pescara), Claudio Di Scanno, interpreta in Abruzzo una feconda (e riconosciuta nel panorama teatrale nazionale) dimensione del teatro di regia. Con alcuni compagni di viaggio (tra tutti l’attrice Susanna Costaglione) in una sede stabile (il teatro comunale di Popoli), ha nutrito e affinato negli anni l’idea di un teatro d’arte, quale anelito costante a realizzare una scena rigorosa e complessa, culturalmente significativa e contaminata con i temi della contemporaneità. L’intervista che segue è stata realizzata nell’aprile 2007 per il primo numero della rivista In Abruzzo, (L’Aquila, edizioni Textus).

Drammateatro si è da sempre distinto per l’attenzione civile ed artistica ai grandi temi della contemporaneità. E’ possibile oggi, o necessario, perpetuare tale scelta di campo?

Ci sono delle scelte che non si fanno per, come dire?, ragionamento o predefinizione di strategie politico-culturali, piuttosto vengono a determinarsi con una certa naturalità perché parte integrante della tua energia, di quanto sei disposto a mettere in gioco nella ricerca delle linee di senso di cui si compone l’opera che vai a creare e più in generale l’agire con il tuo teatro, con le tue pratiche e le tue esperienze ed i tuoi pensieri di teatro. Così, se ad esempio la scelta del testo che prendi a riferimento per la creazione di uno spettacolo viene stimolata da pulsioni che provengono direttamente dal tuo personale confronto con la contemporaneità, che vuol dire le tue reazioni a quanto vivi e ti accade intorno, allora si può parlare di un naturale incontro tra la tua realtà personale e quei temi che informano il testo di quel preciso autore. In altre parole, si tratta di un incontro sincero tra la tua biografia e quella dell’autore, al filtro del testo e della drammaturgia che crei a partire da questo. Il riscontro è poi nella autenticità dello spettacolo che crei, l’opera intesa come esperienza di forte compromissione con la tua contemporaneità, non solo a livello diciamo di messaggi ma anche o soprattutto di sincerità del lavoro artistico, della sua onestà intellettuale. E’ questo che gli spettatori prima di tutto riconoscono. Prima di ogni altra cosa gli spettatori attenti riconoscono se per chi lo ha fatto quello spettacolo è importante e quanto è importante. Credo che al vertice di questa condizione ci sia stato per noi il nostro “Pour en finir avec le jugement de dieu” di Artaud, per il quale ho ricevuto il Premio Franco Enriquez per la Regia nel 2005, lo spettacolo con il quale forse abbiamo raggiunto un punto di rottura fondamentale, l’apice di un percorso poetico-politico che ha segnato la nostra storia dalla metà degli anni ’80 (il Drammateatro è nato nel 1984) alla fine del secolo scorso (“Pour en finir…” è del 1999). Credo che Susanna in quello spettacolo abbia raggiunto livelli straordinari di lavoro e di compromissione personale con quella poetica, con quel respirare in scena in maniera differente, come Artaud ci chiedeva di fare! Ma prima di Artaud c’erano già stati Beckett, Buchner, Brecht, Molière e Bulgakov, Klaus Mann, con quel che naturalmente ne consegue trattandosi di autori sostanzialmente compromessi, e cioè estremamente reattivi rispetto alle rispettive epoche storiche. E immediatamente dopo ci siamo cimentati con  “I Giganti della Montagna” di Pirandello e quindi “Prometeo Incatenato” di Eschilo e “Antigone di Sofocle” nella riscrittura formidabile di Brecht, ma anche il monologo sulla tragedia mineraria di Marcinelle (“Musineri”, con Premio Franco Enriquez a Susanna Costaglione “per un teatro d’impegno civile”). Insomma autori e spettacoli con i quali costantemente determino un confronto serrato con il mio tempo, con la mia contemporaneità, con quanto oggi mi provoca reattività e inquietudine. D’altra parte mi sembra che questa sia da sempre la condizione del teatro e degli artisti di teatro. Dai greci alle più grandi esperienze del ‘900 i teatri hanno sempre sviluppato una loro politica di impegno civile ed artistico, riaffermando in questo modo la necessità del teatro nell’oggi che viviamo. Senza questa compromissione “politica” con la contemporaneità, il teatro diverrebbe un rituale vuoto, privo di senso, non più vivace e non più collocabile nella sfera della produzione culturale ma in quella del mero intrattenimento, che sta a significare la collocazione fine a se stessa, quella della negazione del teatro, della sua morte.

Pensi di poter individuare dei Maestri nella tua esperienza teatrale?

Sono un autodidatta, non ho frequentato scuole né tanto meno mi sento legato a quelle esperienze artistiche che pure mi hanno molto stimolato. All’inizio del mio lavoro ho incontrato Maestri che sono stati di forte orientamento alla mia formazione, sia tecnico-metodologica sia per quel che concerne il modo stesso di agire con il teatro. Ricordo Julian Beck e il Living in un seminario ad Urbino sul finire degli anni ’70 (ma all’epoca non facevo ancora teatro in senso professionale), o anche l’incontro con Riszard Cieslak, soprattutto quello con Eugenio Barba e in tempi più recenti anche con Luigi Squarzina. Ecco, se dovessi fissare dei punti di energia dai quali costantemente ricevo impulsi credo che ogni punto corrisponda ad uno di questi grandi Maestri, ciascuno piuttosto diverso e dai quali ho attinto principi e fatto tesoro di consigli che mi hanno sempre aiutato, di visioni che hanno contribuito al mio immaginario e alle pratiche di scena. All’inizio del percorso di apprendistato hai necessità di carpire i fondamenti e certi principi del mestiere, i Maestri è allora fondamentale incontrarli ma poi in un certo senso devi fuggire da loro altrimenti corri il rischio ( e io l’ho corso!) di diventare un epigono, annullando di fatto la tua identità e soprattutto la tua necessità, perché è normale il profondo processo di fascinazione cui incorri, trattandosi di eccezionali personalità artistiche. Il punto di crescita è il distacco dagli alvei protettivi della fascinazione che ti aveva avvolto. E’ a quel punto che inizi concretamente il tuo reale percorso, la tua storia artistica, la tua biografia significativa. Penso che se tu hai registrato in questi anni la mia attenzione civile ed artistica ai grandi temi della contemporaneità e se questo atteggiamento provi a rapportarlo alle diverse storie dei Maestri che ho citato, appare evidente la loro presenza forte nelle mie scelte, nell’atteggiamento verso il teatro e nell’uso sostanziale che ne faccio.

Ti definiresti un “Dramaturg”?

Direi di si, ma nel senso preciso di un certo tipo di lavoro che sviluppo in scena, di me regista che mette in forma il testo di un autore attraverso non solo una ri-lettura ma anche una ri-scrittura agita direttamente in scena, nel processo creativo, e che consente di determinare letteralmente drammaturgia (drama-ergos), e cioè di intrecciare le energie secondo precisi livelli di sensibilità personali degli attori, tra di loro e con me regista, e viceversa. In questo senso la distinzione tradizionale tra Drammaturg e Regista è superata da tempo, giacchè molti registi sono anche appunto Dramaturg proprio per il tipo di lavoro scenico che usano fare nel rapporto non solo con il testo ma anche con gli attori. Poi è chiaro che nell’allestimento intervengono anche le altre componenti della costruzione drammaturgica di uno spettacolo teatrale, dai materiali di creazione degli attori alle intuizioni registiche, dai costumi alle luci alla scenografia allo spazio e cosi via, e in questo senso si può parlare di una creazione drammaturgica a più voci, una azione sinergica in cui il regista-dramaturg è colui che intreccia i fili fino alla tessitura definitiva. Ma questa è storia, nel senso che tutti i grandi Maestri del teatro di Regia e di innovazione del ‘900 hanno sviluppato una visione del lavoro del Regista che va direttamente a con-fondersi con quella del Dramaturg. Questa è anche la mia tradizione.

Le tue scelte artistiche ti hanno condotto a misurarti con la grande drammaturgia europea e con i testi classici sia pure attraverso riletture di contemporanei. Questo accomuna in fondo tutti i grandi registi, sembrerebbe che ci siano autori dall’affrontare i quali un regista non possa prescindere, come un viatico di passaggi collegati da una necessità storica.

C’è indubbiamente una voglia di misurarsi con la grande drammaturgia, con i grandi autori e i grandi testi, con il patrimonio letterario ed artistico che accompagna il lavoro di scena fin dai primi passi dell’apprendistato. In fondo il nostro immaginario si nutre costantemente delle inquietudini che provengono direttamente dall’impatto con il mondo degli Amleto o degli Edipo e cosi via. Ci sono cioè degli archetipi, e dei fantasmi!, che ti accompagnano costantemente, che ti parlano e si rivelano nel tempo, come un lungo processo di sedimentazione del senso della loro presenza nella tua esperienza artistica. Nel tempo diventano nodi da sciogliere, nodi artistici da sciogliere perché hai necessità di sciogliere quel legame profondo che in alcuni casi ha condizionato, anche inconsapevolmente seppure positivamente, gli orientamenti e le scelte. Per altri aspetti diventano ossi da rodere, perché è evidente che mettere in scena Amleto oggi comporta la maturazione di un tuo progetto, del progetto di un tuo Amleto e questo non è naturalmente semplice.  Per certi altri aspetti ancora, la realtà tematica del testo classico è così potente da diventare immediatamente un veicolo attraverso il quale tenti di riproporre, nella messa in scena, i segnali di pericolo per la civiltà, la cultura. Tra la profezia di Artaud in “Pour en finir…” e la rivolta di Prometeo o  la sconcertante, straordinaria  attualità dell’ Antigone di Brecht è facile rintracciare i segni non solo degli accadimenti storici in atto ma anche la forte efficacia del testo classico, la loro rinnovata “necessità storica” come tu ben dici. In questo caso sembra quasi affermarsi l’esperienza di una, per così dire, nuova classicità. Mi accingo a lavorare all’Orestiade di Eschilo nella traduzione di Pasolini, e con questo spettacolo concludo la mia trilogia del Mondo Antico iniziata con Prometeo nel 2005 e continuata nel 2006 con Antigone. Anche in questo caso, il tema forte della assemblea democratica che si evidenzia con grande forza nelle Erinni-Eumenidi mi restituisce il senso forte di una profonda appartenenza del testo a questo periodo storico, diviene oggi un monito che ha tutta la forza del passato da cui proviene. Non so, ho come l’impressione che venga ogni giorno meno la partecipazione democratica ampia, il dibattito approfondito sulle grandi questioni nel confronto con la società civile e i cittadini, il pensiero politico alto. Ma questo dovrebbe essere stimolato dai nostri governanti, dalla politica, che avrebbe necessità di un alto profilo, e invece… Per tornare alla tua domanda, è  vero, ci sono testi dai quali non si può prescindere, perché arriva il tempo in cui hai necessità di misurarti con dei grandi capolavori della storia, con gli Immortali, con il mistero e le sue profondità, e spesso la maturità coincide anche con questa necessità, e con il desiderio di ricontestualizzare storicamente, nel senso della tua storia personale, la verità dei padri e degli antenati.

Qual è il senso della presenza culturale del Drammateatro nell’oggi? Ha a che fare con la passione e con l’arte, con la politica e la società, o con il mestiere?

Il percorso costruito in questi 23 anni di lavoro penso sia stato vissuto in una dimensione di immersione pressoché totale, con un grande dispendio di energie, di passioni, di esplorazione delle necessità. Abbiamo raggiunto dei risultati importanti, anche dei riconoscimenti considerevoli (dei critici, i Premi, l’invito a Festival prestigiosi), e credo che questo sia accaduto attraverso dinamiche rigorose e scelte precise da un punto di vista artistico e culturale. Per il futuro, come ti ho già detto facciamo l’Orestiade e la traduzione di Pasolini è anche l’occasione di un primo incontro “di scena” con questo immenso artista ed intellettuale la cui opera e la cui biografia non smettono mai di offrire stimoli e di istigare alla creatività e all’impegno. Per quel che concerne il senso della nostra presenza culturale oggi, penso che rimanga intatto il senso che aveva anche ieri, vale a dire quello di una presenza inquieta nel panorama culturale e nel teatro. In Abruzzo credo siamo stati per molti aspetti un modello da seguire, e questo ha un ulteriore significato politico. Passione, arte, politica, società e mestiere sono in realtà altrettanti elementi interattivi e costitutivi di un agire, di un attraversare con tutto il tuo corpo, con tutto se stessi la realtà della scena. Il senso della  presenza la si evince poi dall’opera di scena, dallo spettacolo, dal teatro che concretamente si fa scena, da questo appuntamento rituale nel  quale incroci gli sguardi degli spettatori, la condivisione di una relazione che vuole ergersi ancora, ostinatamente, a baluardo di una umanità che voglio continuare ad  identificare come il perno intorno al quale gira o dovrebbe sempre girare la ruota della cultura e della civiltà.

Facebooktwittergoogle_plus

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.