Judith Malina: un’allieva e il suo maestro

(New York, agosto 1993)

Nella sua straordinaria vicenda teatrale Judith Malina non ha mai smesso di riferirsi al suo maestro Erwin Piscator (1893-1966) e alla sua scuola di teatro, il Dramatic Workshop, da lei frequentato alla New School for Social Research di New York, insieme ad altri grandi registi americani come Frederick Newmann, il fondatore del Bread an Puppet, o George Barteneieff, padre del Theater for the New City, scrittori come Tennessee Williams e Arthur Miller o attori del calibro di Marlon Brando.

L’intervista che segue è stata pubblicata in forma di testimonianza sul quotidiano Il Manifesto (“Un’oscura camicia di forza per domare l’utopia”, 22 agosto 1993), a corredo di un articolo dedicato alla triste vicenda personale occorsa all’allora novantenne vedova di Piscator, la danzatrice Maria Ley (1898 –1999) che diresse la scuola all’epoca in cui Piscator tornò a Berlino come direttore della Volksbunne e che ebbi la chance di incontrare nella casa di riposo in cui era stata condotta contro la sua volontà. L’articolo sintetizzava l’intervista la cui registrazione mi era stata sfortunatamente sottratta all’uscita.

Quale è stato l’insegnamento più influente di Piscator?

Piscator insegnava due principi fondamentali, anzi diciamo meglio, che io come allieva, appresi due lezioni fondamentali: la prima riguardava la possibilità di sfruttare a teatro la complessità dei mezzi comunicativi messi a disposizione dal progresso della razza umana e dalla complessità delle possibilità spaziali ed architettoniche, la totalità del teatro insomma e, noi, al Living Theatre, abbiamo fatto e facciamo teatro ovunque, nella strada, in situazioni convenzionali, negli ospedali, nelle fabbriche, nei supermercati, in tutti gli spazi utilizzabili. La seconda lezione riguarda l’impegno dell’attore. Ripeteva sempre: “Non potete stare lassù a farvi guardare ed ascoltare se non avete qualcosa di veramente importante da dire”. Così, spesso, veniva accusato di non rispettare gli attori o di maltrattarli. In realtà, ci rispettava più di ogni altro regista al mondo, al punto da chiederci di avere consapevolezza di ciò che comunicavamo e di comunicare esattamente quello che sentivamo. Una sorta di grande ordine.

Se volessimo rintracciare una sua eredità nella storia del teatro, quale influsso individueresti?

Storicamente, quello che Piscator ha fatto è stato di trasformare la forma, l’architettura teatrale, in modo tale che tutto ciò che è seguito ne è stato contaminato, infettato. Credo che il teatro tutto oggi, da quello più sperimentale a quello commerciale di Broadway e tutte le forme le forme di performance che stanno nel mezzo, abbiano un grande debito verso Piscator. Ci sono due mondi a teatro, quello dell’attore che viene osservato e quello dello spettatore che osserva; e ce n’è un terzo, quello in cui attori e spettatori interagiscono e sentono la loro interattività. Dobbiamo a lui questa percezione.

Questo è stato particolarmente importante per il Living Theatre …

Piscator era interessato alla relazione tra attore e spettatore e al grado di realtà che esiste tra loro. Per lui il teatro doveve essere come un’assemblea pubblica, dove attori e spettatori scambiavano idee. Voleva che lo spettatore partecipasse attivamente allo spettacolo, persino che interrompesse l’azione per chiedere un chiarimento o esprimere il suo parere su qualcosa. Possiamo dire dunque che il lavoro del Living Theatre è stato proprio una continuazione del lavoro di Piscator e che il suo insegnamento ci ha portato a creare un teatro come gruppo di affinità politica che tentasse di infrangere tutte le regole della tradizione.

C’è un ricordo particolare del tuo periodo al Dramatic Workshop?

Un disegno meraviglioso, di uno spazio architettonico ideale che, come molte delle cose sue idee, è rimasto una visione. Ma una visione che oggi molti spettacoli realizzano, quando utilizzano quella complessità di mezzi comunicativi in maniera non convenzionale. Se fosse vivo oggi Piscator sfrutterebbe teatralmente il film, la fotografia, il video, la diapositiva, il computer. In un certo senso quella visione è germogliata.

Ma ora lascia che ti parli di Maria Piscator, in questo momento per lei così terribile, perché da sempre, da quando nel ’51 venne a guidare il Dramatic Workshop, nel periodo in cui suo marito ritornò in Germania, a tutt’oggi, lei non ha mai abbandonato questo livello di lavoro, questo aspetto visionario. Nonostante la condizione mortificante in cui si trova,  mantiene l’idea di rappresentare il suo adattamento del testo “Metaforfosi” di Kafka, anche ora che, come un personaggio kafkiano, è schiacciata dalla brutalità di un sistema che vuole impedirle di esprimersi fino in fondo. Come tutte le persone di novant’anni, Maria Piscator ha una sua visione della realtà, ma è raro trovare tanto fervore, tanta saggezza. Una visione tale, come la visione di chi crede che il teatro, l’arte, possamo salvare il mondo dalla catastrofe, non si può uccidere.

Nel 2012 Judith Malina ha pubblicato presso la casa editrice Routledge, il volume “The Piscator Notebook“, in cui  descrive gli insegnamenti ricevuti da Piscator che sono divenuti eredità del Living Theatre.

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